Su il sipario, si recita la finzione

Silvio Orlando in un momento di «Ciarlatani» di Pablo Remón, in scena al Mercadante
(la foto è di Guido Mencari)

NAPOLI – «Sento che la realtà, tutto quello che mi hanno raccontato, non è la realtà: è una gigantesca messa in scena. Tutti mentono, tutti. Mentono i miei genitori, i miei amici, la mia famiglia. Sono tutti attori, tutti. Tutti interpretano un ruolo in uno spettacolo di proporzioni colossali. Lo spettacolo più grande della storia, messo in scena esclusivamente per una spettatrice: me. Uno spettacolo che solo ora , per qualche minuto, durante l’eclissi, si è interrotto. Era – e adesso lo so – la fine del paradiso dell’infanzia. Tutto questo dura solo un momento. Eppure dopo, quando finisce, non ho voglia di togliermi gli occhiali. Non li tolgo più. Mai più. Li porto sempre con me. Li porto adesso, mentre vi guardo. Adesso che sono qui, sul palcoscenico».
Mi sembra che sia questo (riferito all’eclissi totale di sole dell’11 luglio 2005) il passo-chiave di «Ciarlatani», il testo dello spagnolo Pablo Remón che, nella traduzione di Davide Carnevali, è in scena al Mercadante in un allestimento diretto dall’autore e coprodotto dalla Cardellino con il Festival dei Due Mondi di Spoleto e il Teatro di Roma. E aggiungo subito che lo è nel bene e nel male: nel bene perché riassume con efficacia i temi portanti del testo in questione e nel male perché riassume con altrettanta efficacia tutto quello che di scontato e di banale il testo medesimo contiene ed ostenta, starei per dire senza pudore.
Il comunicato stampa del Teatro di Napoli presenta lo spettacolo con la solita enfasi, informandoci che «Ciarlatani» è vincitore del Premio Nacional de Literatura Dramática 2021. Ma, a parte il fatto che il sito di quel Premio dice che nel 2021 Remón lo ha vinto con un testo intitolato «Doña Rosita, anotada», mi permetto di ritenere che mai premio, dato e non concesso che i premi significhino qualcosa, fu attribuito (se a Remón è stato effettivamente attribuito) con maggiore infondatezza.
Il plot è basato su tre storie che si svolgono contemporaneamente e si riflettono l’una nell’altra come in uno specchio: quella di Anna Velasco, un’attrice (è lei che recita il monologo da cui ho estratto il passo citato) d’incerta carriera, che sogna il grande ruolo drammatico e intanto s’arrangia tra soap e spettacoli alternativi, non disdegnando d’insegnare pilates e teatro ai bambini; quella di Diego Fontana, regista di film commerciali che a sua volta sogna di girare un lungometraggio epocale, intitolato «La parusia»; e quella del padre di Anna, Eusebio Velasco, scomparso regista di culto degli anni Ottanta. E con questi tre personaggi interloquisce l’autore, che spiega come e perché ha deciso di fare in Italia «Ciarlatani», a partire dall’incontro con Maria Laura Rondanini della Cardellino, la società che produce gli spettacoli di suo marito Silvio Orlando, protagonista, appunto, dell’allestimento di quella commedia che ora è in scena al Mercadante.
Insomma, siamo di fronte a un bignami di tutto il già visto e sentito: dal «teatro nel teatro» di pirandelliana memoria all’«autofinzione» praticata (ma con esiti ben diversi, fino al virtuosismo) da Sergio Blanco, passando – giusta la battuta dell’autore, «Probabilmente non siamo noi a parlare, ma i morti», che fa tanto «Rosmersholm» – per il processo al passato tipico di Ibsen. Senza contare ovvietà piramidali tipo, per fare solo due esempi, «[…] sì, la verità è che, la vita dell’attore… C’è un po’ di disoccupazione in giro» e «[…] cercherà la sala in cui aveva debuttato, questa sala. Non la troverà. Al suo posto, ci sarà una pizzeria».
Per di più, Remón, nel tentativo di rimpolpare e nobilitare un simile canovaccio, tira in ballo autori-cardine quali il Cechov di «Tre sorelle» e, addirittura, la Sarah Kane di «4:48 psychosis». Ma, si capisce, sono citazioni appiccicate, che danno luogo, come nel caso della Kane, soltanto a battute da salotto cretino quali «il suicidio è una cosa molto seria». E quando Diego dice al suo produttore: «Dentro di me, Alex, c’è un bambino. C’è un bambino… artista», aggiungendo: «E io… non sono stato capace di ascoltare questo bambino», vien fuori – non ci si crederebbe – nientemeno che il «fanciullino» di Pascoli, nel frattempo diventato un vegliardo.
Naturalmente, come forse qualcuno ha intuito, il testo e lo spettacolo che ne deriva intenderebbero mettere in atto un’oscillazione perenne e significante fra il sogno, appunto, e la realtà. Ma in questo caso oscillazione fa rima con confusione. E dal canto suo la regia di Remón, che a propria volta intenderebbe mescolare i linguaggi del teatro e del cinema, non riesce ad andare oltre la pedana che, scorrendo avanti e indietro dal fondo verso la ribalta e viceversa, allude allo zoom. Un espediente anch’esso visto e rivisto.
In definitiva, l’unica oscillazione qui realizzata con qualche successo (le sporadiche risatine del pubblico) è quella di talune battute oscillanti, appunto, tra l’avanspettacolo, il cabaret e la sit-com.
Basta, via. Non resta che Silvio Orlando, il quale – nei ruoli di Diego e di altri personaggi minori – con la sua raffinata capacità espressiva riesce, pur in un contesto del genere, a destare i brividi di una striminzita amarezza. Al suo fianco i non più che scolastici Nina Pons (Anna) e Francesca Botti e Francesco Brandi, anche loro in molteplici ruoli.
Ma, per concludere, mi chiedo dove sia il Silvio Orlando che nel dicembre del 2021 presentò sullo stesso palcoscenico del Mercadante il piccolo gioiello costituito da «La vita davanti a sé». Si capisce tutto, però, se consideriamo che quello spettacolo discendeva dall’omonimo romanzo di Romain Gary e che a firmarne e dirigerne l’adattamento, oltre che ad interpretarlo, era lo stesso Orlando.

P.S. In tempi recentissimi, ho visto di fila, nell’ambito della stagione del Teatro di Napoli, tre spettacoli tutti, a vario titolo, inconsistenti e ininfluenti: «La lupa» con Donatella Finocchiaro, «La madre» con Lunetta Savino e appunto questo «Ciarlatani» con Silvio Orlando. E sempre più cocente, dunque, si fa la mia delusione rispetto alle attese suscitate dall’avvento di Roberto Andò alla direzione del nostro Stabile.

Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *