Seduti, mentre passano cavalli bianchi

Elena Bucci e Marco Sgrosso in un momento de «La casa dei Rosmer», in scena al Metastasio di Prato
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Ilaria Costanzo)

PRATO – «Credo quasi che noi tutti siamo spettri, pastore Manders. Non soltanto quello che ereditiamo da padre e madre riappare in noi, ma ogni sorta di idee vecchie e morte, e convinzioni altrettanto vecchie e morte. Tutto ciò non vive in noi; ma c’è tuttavia e non possiamo liberarcene».
È la battuta che in uno dei più emblematici drammi di Ibsen, per l’appunto «Spettri», pronuncia Helene, la vedova del capitano e ciambellano Alving. Potremmo tranquillamente considerarla come la battuta-chiave di tutto il teatro del Norvegese. E in ogni caso mi sembra che s’attagli particolarmente a «Rosmersholm», il testo del 1886 ora in scena al Metastasio di Prato – per la regia di Elena Bucci in collaborazione con Marco Sgrosso – su progetto ed elaborazione drammaturgica degli stessi e col titolo «La casa dei Rosmer».
Ma, prima di passare all’analisi di questo spettacolo, ancora una volta avvicino l’autore del quale parliamo sulla base dell’insuperata analisi di Peter Szondi: «In Ibsen il problema è quello di rappresentare il passato, vissuto interiormente, in una forma letteraria che conosce l’interiorità solo nella sua oggettivazione, e il tempo solo nel suo momento di volta in volta presente; ed egli lo risolve inventando situazioni in cui gli uomini seggono a giudici del loro passato ricordato, e lo portano così alla luce aperta del presente».
Nacque per questo la definizione scherzosa del teatro di Ibsen: «Sediamoci e parliamone». E ad onta dello scherzo, è proprio quanto avviene in «Rosmersholm»: «Vieni, sediamoci sul sofà», dice Rosmer a Kroll; «resta seduto, Kroll, te ne prego», dice Rosmer quando Kroll fa per balzare in piedi; «sediamoci e parliamo a cuore aperto», dice Rosmer sedendosi su una seggiola di fronte a Kroll che si è seduto sul canapè; e, per chiudere con gli esempi, «Sediamoci. Tutti e tre», dice Rebekka a Kroll e a un Rosmer che, recita la didascalia, «si siede macchinalmente».
Torna, quindi, il tema-chiave del teatro di Ibsen: nonostante che la vita venga continuamente evocata e invocata (come desiderio fanciullescamente esibito, come stanca abitudine o come inutile condanna), poi, in realtà, al posto della vita s’accampa un presente che, per ripetere ancora le parole di Szondi, «si limita a essere un pretesto per l’evocazione del passato». E il futuro stesso resta affidato all’improbabile ipotesi del «meraviglioso», di un «prodigio» – nel caso del dramma di cui ci occupiamo «la convivenza che diventa matrimonio» – in cui, peraltro, non si crede più.

Emanuele Carucci Viterbi e ancora la Bucci in un altro momento dello spettacolo, tratto da Ibsen

Pensiamo a un altro dei testi più emblematici di Ibsen, «La donna del mare». Quando Ellida gli chiede se, dopo che lei lo rifiutò, non abbia «pensato ad un altro legame», Arnholm risponde: «Mai. Son rimasto fedele ai miei ricordi». E poco prima il marito di Ellida, Wangel, aveva raccomandato allo stesso professore: «Parli con lei del passato, caro Arnholm. Le farà infinitamente bene».
In breve, tutte le opere del drammaturgo norvegese presentano personaggi che, tormentati dal vuoto che dilaga dentro e intorno a loro, sono spinti sempre più spesso a confrontarsi, appunto, con i ricordi. E di conseguenza, il passaggio che compiono (o, meglio, scontano) nel mondo si riduce a quanto prospetta, ancora ne «La donna del mare», l’amaro sfogo di Bolette: «Noi dobbiamo starcene buoni buoni e passar la vita nello stagno delle carpe».
Non altro si afferma in «Rosmersholm». A Kroll, che le ha chiesto: «Ebbene, che si fa qui da voi?», Rebekka risponde: «Oh, il solito; qui tutto procede sempre allo stesso modo regolare e tranquillo. Un giorno preciso all’altro». Perciò la signora Helseth fa notare alla stessa Rebekka: «I bambini non strillano mai qui a Rosmersholm». E, quando lei domanda sorpresa: «Non strillano mai?», insiste: «No. A memoria d’uomo, qui a Rosmersholm non s’è mai udito un bambino strillare», aggiungendo, allorché Rebekka commenta: «È molto strano», la precisazione: «Sì, nevvero? Ma è una cosa di famiglia. E c’è un altro fatto strano. Quando quei bambini son diventati grandi, non ridono mai. Non ridono mai in tutta la loro vita».
Già, quei bambini fanno anche loro parte degli «spettri» di cui dicevo all’inizio. Sono degli zombi. E si spiegano così le due battute collocate quasi in apertura del testo, e dunque in posizione fortemente icastica: a Rebekka, che ha osservato: «Qui a Rosmersholm si è molto attaccati ai propri morti», la signora Helseth replica: «Direi, signorina, che son piuttosto i morti che sono molto attaccati a Rosmersholm». Ma, prima di continuare con l’analisi del testo di Ibsen e di procedere ad esaminarne la messinscena da parte di Elena Bucci e Marco Sgrosso, ritengo utile ricordare per sommi capi il plot che in «Rosmersholm» si sviluppa.
In un’antica dimora signorile, appunto Rosmersholm, situata nei dintorni di una piccola città costiera della Norvegia settentrionale, vive con Rebekka West, a metà fra la dama di compagnia e la governante, l’ex pastore luterano Johannes Rosmer, rimasto vedovo dopo il suicidio della moglie Beate. Rosmer ha lasciato la chiesa per abbracciare le idee liberali, perciò contrapponendosi al rettore Kroll, fratello della defunta Beate e seguace del più chiuso conservatorismo. E a mano a mano («Rosmersholm», giusto il processo intentato al passato tipico di Ibsen, ha l’andamento di un «giallo») si scopre che tra Johannes e Rebekka è nato un rapporto d’amore, nascosto dai due sotto la maschera dell’amicizia, e che è stata proprio Rebekka a spingere Beate al suicidio, ovviamente allo scopo di prenderne il posto. Sicché, alla fine, Rosmer e la West si suicidano a loro volta, gettandosi insieme, nella gora di un mulino, dallo stesso ponticello da cui s’era gettata la moglie dell’ex pastore.

Marco Sgrosso e ancora Carucci Viterbi nell’adattamento di «Rosmersholm»

La spiegazione di questo gesto estremo la dà Rebekka quando dice al Rosmer che le ha proposto di sposarlo: «[…] ora che tutta la felicità della vita mi è offerta a piene mani… ora mi son così mutata che il mio passato mi vieta di accettarla». Torniamo, dunque, al tema di fondo di «Rosmersholm» e dell’intero teatro di Ibsen. E aggiungo subito che quel tema viene svolto da Elena Bucci e Marco Sgrosso con un acume e una precisione rarissimamente riscontrabili sui palcoscenici di oggi. A partire dalla sequenza d’avvio, un attacco di spettacolo teatrale tra i più illuminanti e folgoranti degli ultimi anni.
Appena entrano, gli attori vanno tutti a sedersi sulle sedie. E si dividono la didascalia iniziale, a tratti ripetendone certe parole o frasi. E mentre in quella didascalia Ibsen si limita a dire che «alle pareti sono appesi ritratti antichi e recenti di ecclesiastici, di ufficiali e di funzionari in uniforme», qui di quegli ecclesiastici, di quegli ufficiali e di quei funzionari si forniscono – puntigliosamente, e non senza un’ironia straniante – i nomi di battesimo accoppiati al cognome Rosmer: «Ejlert, Gabriel, Torvald, Eyolf e Gottfried».
Non si poteva sottolineare meglio (intendo con maggiore forza espressiva) il peso del passato che incarnano quei ritratti appesi alle pareti e, in forma simbolica, i cavalli bianchi di cui più volte si parla come dell’aspetto che assumono i morti che ritornano.
Però, non può sfuggire una cosa, perché è la cosa più importante. Nell’impianto scenografico di Nomadea al posto della dimora signorile prevista da Ibsen e indicata nella didascalia iniziale del suo testo, qui si mostra un ambiente astratto connotato, insieme, da un gruppo di sedie, unico arredo, sempre presenti dall’inizio alla fine («sediamoci e parliamone», appunto), e da una serie di sipari interni, fatti di teli trasparenti dietro cui, ricorrentemente, i personaggi sostano o si muovono come ombre. E sono spariti i ritratti di ecclesiastici, di ufficiali e di funzionari in uniforme appesi alle pareti.
Mi sono spesso scagliato contro il vizio dei teatranti di tentar di spacciare per attuale tutto quello che portano in scena, dal dramma satiresco alle prediche di Giovacchino Forzano passando per i misteri medievali. Qui, invece, il testo rappresentato non solo è attuale di per sé, ma lo diventa, e ancora di più, proprio attraverso le modifiche ad esso apportate. E mi spiego.
Ibsen è un autore di straordinario rilievo perché praticò il teatro in rapporto alla società, individuando la crisi del dramma moderno come la conseguenza diretta di quella della borghesia. E oggi che la borghesia non c’è più e non c’è più il teatro che la stessa esprimeva, sostituito da un intrattenimento generico e generalistico, ecco che, per l’appunto, spariscono, in «Rosmersholm», i ritratti dei personaggi che la borghesia incarnavano: sparisce, cioè, la loro immagine, in quanto residuo del passato, e le subentra il loro coinvolgimento passivo in un’azione che dal passato è precipitata (Beate che si lancia nella gora del mulino!) in un presente ineffettuale.
Infatti, lo spettacolo di Elena Bucci e Marco Sgrosso è scandito per tutta la sua durata da versi di uccelli, e spesso gli attori imitano il battere le ali di quelli: si allude, contemporaneamente, al recupero dell’«innocenza» agognato da Rosmer e da Rebekka (un’altra delle decisive chiavi di lettura fornite da Ibsen, sottolineata anche dai fiori che straripano a Rosmersholm) e al fatto che i personaggi in campo sono imprigionati, giusto come uccelli, nella gabbia del loro presente senza sbocchi.
Alla fine, verso il fatidico ponticello si dirigeranno tutti, non solo Rosmer e Rebekka. E con questa strepitosa e vertiginosa invenzione ci si dice che oggi, se pure non ci lanciamo da quel ponticello per andare a morire nella gora di un mulino, affoghiamo tuttavia in una drammatica riedizione della «morta gora» di Dante.
Gl’interpreti, adesso. Accanto agli stessi Elena Bucci (Rebekka West) e Marco Sgrosso (Johannes Rosmer), come sempre impareggiabili, sono molto bravi anche Emanuele Carucci Viterbi (Kroll), Francesco Pennacchia (Brendel e la signora Helseth) e Valerio Pietrovita (Mortensgaard). Ma chiudo con una nota particolare per Elena Bucci.
Mentre la guardavo, mi si presentava davanti agli occhi l’immagine di un’altra donna, che però non riuscivo a individuare. Poi, ieri sera, mentre dal Metastasio tornavo in albergo per strade deserte, mi sono improvvisamente ricordato: Elena Bucci mi riportava davanti agli occhi la donna che compare in una delle riproduzioni di opere grafiche di Munch che illustrano i due volumi de «I Millenni» Einaudi dedicati, appunto, ai drammi di Ibsen.

Enrico Fiore

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