L’interrogazione chiamata Edipo

Roberto Latini e Marco Foschi in un momento di «Edipo Re», in scena al Teatro Astra di Torino
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Andrea Macchia)

TORINO – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

«In Sofocle, sovrumano e subumano si riuniscono e si confondono nello stesso personaggio. E poiché questo personaggio è il modello dell’uomo, scompare ogni limite che permetterebbe di definire la vita umana, di fissare senza equivoco il suo statuto. Quando, alla maniera di Edipo, l’uomo vuole condurre fino in fondo l’inchiesta su ciò che è, si scopre enigmatico, senza consistenza né ambito che gli sia proprio, senza appiglio fisso, senza essenza definita, oscillante fra l’uguale a Dio e l’uguale a nulla. La sua vera grandezza consiste proprio in ciò che esprime la sua natura d’enigma: l’interrogazione».
Non so quante volte l’ho citata, l’acutissima e decisiva analisi di Jean-Pierre Vernant circa il fatidico personaggio sofocleo. Ma stavolta – a proposito dell’allestimento di «Edipo Re» coprodotto dalla Fondazione Teatro Piemonte Europa, dal Teatro di Napoli e da Lugano Arte e Cultura e presentato al Teatro Astra di Torino per la regia del nostro Andrea De Rosa, che di Torino Piemonte Europa è direttore – la cito con convinzione maggiore, per non dire assoluta. Giacché, la faccio breve, lo spettacolo in questione si rivela e si sviluppa, puramente e semplicemente, come la messinscena di quell’analisi.
Tanto si constata già a monte, ovvero a partire dal programma della stagione ’23-’24 di Torino Piemonte Europa. È intitolato «Cecità», e De Rosa ha chiesto alle artiste e agli artisti che vi sono coinvolti di rispondere attraverso le loro creazioni a queste tre domande: «Chi è il cieco?», «Cosa non vede o non vuole vedere?» ed «E perché?». Scrive il regista: «Se è vero, infatti, che la chiacchiera quotidiana della cronaca, anziché aiutarci a capire, sembra aumentare la nostra incapacità di vedere, noi proveremo a usare il linguaggio del teatro per soffermarci sul dettaglio, sulla lacuna, sull’omissione. Proveremo ad aprire gli occhi, grazie a quel buio luminoso che è da sempre il teatro».
Ebbene, Edipo è inscritto proprio nel «buio luminoso» di cui parla De Rosa. Sappiamo che s’acceca. Ma è assolutamente necessario abbandonare l’interpretazione di quell’accecamento nella solita chiave «romantica». Non è l’autopunizione che Edipo s’infligge di fronte all’orrore per le empietà commesse, ma l’«espediente» da lui adottato per acquisire un maggior grado di conoscenza.
Insomma, Edipo s’acceca non perché non vuole più vedere, ma perché vuole vedere oltre il limite dei significati dati. E in ciò, del resto, sta il senso alto della sua morte misteriosa, che – non a caso – avverrà, con i tempi e i modi di un vero e proprio rituale iniziatico, nel buio insondabile del bosco sacro alle Eumenidi, ossia in una dimensione altra.
De Rosa, aggiungo subito, sottolinea tutto questo con una serie d’invenzioni ad un tempo agili e pregnanti. Per illustrare la più importante delle quali ricorro al passo conclusivo della nota di Raffaele Cantarella che introduce il testo di «Edipo Re» nel Meridiano Mondadori dedicato ai tragici greci: «(…) il pio Sofocle ci lascia nel dubbio che anche gli dèi siano impotenti dinanzi all’assurdo che domina l’esistenza».

Ancora Marco Foschi in un altro momento dello spettacolo, diretto da Andrea De Rosa

Infatti, Apollo, il dio che presiede alla tragedia di cui parliamo, nel testo di Sofocle non compare. E invece Andrea De Rosa lo trascina, a forza, nel vivo dell’azione e del dibattito morale che da quella discende: grazie a un personaggio, per l’appunto inventato, che risulta dalle battute di Tiresia e dei due nunzi e che finisce ad incarnare proprio Febo. Al punto che il coro ed Edipo pronunciano l’intero elenco dei titoli e degli epiteti che la tradizione attribuisce a quest’ultimo: «Apollo l’obliquo, Apollo il contorto, Apollo l’arrogante, Apollo l’arciere, il Figlio della Lupa, il camminatore, Apollo il giustiziere, Apollo vendicatore del sangue, arciere della morte, Apollo l’eccessivo, Apollo il simile alla notte, Apollo l’orgoglioso, lo scuoiatore, Apollo fondatore di città, signore degli oracoli, del prima e del poi, Apollo signore della Parola, dio dei viaggiatori e dei fanciulli, signore del fuoco e delle pestilenze, Apollo incoronato di alloro, Apollo il sublime danzatore»…
Accade, quindi, che sia la voce di Apollo, messa in bocca al predetto personaggio inventato, che reiteratamente irrompe nel discorso di Edipo – il quale maledice l’assassino di Laio, «chiunque esso sia» – per dirgli «sei tu». Molto intelligentemente, così, De Rosa spinge anche la dimensione oltremondana sul terreno del dubbio proprio dello statuto umano. È un autentico e tormentoso stillicidio: Edipo: «… dobbiamo ascoltare la voce del dio…» – Coro: «È questo che vuoi?» – Edipo: «… dobbiamo ascoltare la voce del dio…» – Coro: «È questo che vuoi?» – Edipo: «… dobbiamo interrogare l’oracolo…» – Coro: «È questo che vuoi?». E continua per suo conto Edipo: «Quali, quali sono le parole esatte? Quali sono le parole del dio? Quali sono le parole dell’oracolo?».
Il coro gli risponde solo: «È qui! Apollo il Puro, Apollo il Candido, Apollo l’Arciere. È qui! Signore degli oracoli. È qui! Apollo il camminatore. È qui! Apollo il viaggiatore. È qui!». Del resto, ed è un’altra delle invenzioni determinanti di De Rosa, qui il coro si restringe: non rappresenta più gli abitanti di Tebe, ma appena il gruppo dei familiari e degli intimi del re e della regina. Infatti, ne fanno parte, a volte, anche Creonte e Giocasta. Poiché tutto, lo ripeto ancora una volta, riconduce immancabilmente e drasticamente a Edipo, a Edipo in quanto, giusta l’analisi di Vernant, «interrogazione».
Di modo che, e quindi ancora non a caso, lo spettacolo si apre con il coro che canta una ninna nanna in greco di Demetrio Stratos che costituisce, in pratica, la sintesi della vicenda oggetto della tragedia di Sofocle, agganciata, per l’appunto, alla tensione di Edipo verso l’oltre e l’altro da sé: «Sonno, tu che porti via i bambini / portami via anche questo / te l’ho consegnato piccolo piccolo / riportamelo grande / grande come una montagna / slanciato come un cipresso / che domini da oriente a occidente».

Roberto Latini e Marco Foschi in una scena con Frédérique Loliée

Visivamente, poi, la messinscena consiste (il sapiente disegno luci è di un altro napoletano, Pasquale Mari) nella simbolica lotta contro il buio ingaggiata da proiettori, colonnine di lampade e tubi di neon. E due idee centrali, entrambe straordinarie, la sorreggono sul piano drammaturgico, a sua volta garantito dalla traduzione di Fabrizio Sinisi.
La prima si riferisce al fatto che spesso i personaggi compaiono dietro pannelli di plexiglas. Sono sei, questi pannelli, all’inizio affiancati a delimitare la ribalta e in seguito spostati qua e là nello spazio scenico, firmato da Daniele Spanò. E sono imbrattati da macchie e colature di vernice, sicché risultano a malapena riconoscibili coloro i quali hanno alle spalle. Mentre la seconda – riguardante il fatto che di Tiresia, l’indovino cieco, non si vedono gli occhi, nascosti da una striscia di carta incollata sul suo pannello – è l’idea che informa di sé l’intero spettacolo, che, cioè, ne rivela le intenzioni e ne mostra il senso complessivo.
A questo, naturalmente, concorrono anche, e in misura più che notevole, la dedizione e la bravura degli interpreti, che qui di seguito elenco mettendoli tutti alla stessa altezza: Marco Foschi (Edipo), Roberto Latini (Tiresia), Frédérique Loliée (Giocasta), Fabio Pasquini (Creonte), Francesca Cutolo e Francesca Della Monica (il coro).
Il risultato è che le due idee in questione, congiunte fra loro, ci dicono che il male (nella circostanza l’altrettanto simbolica cecità) è fuori di noi, nel mondo. E quindi, è anche dentro noi spettatori, confusi, ad esempio, nel vuoto chiacchiericcio dei social, e qui chiamati all’impegno e alla fatica di vedere dietro quegli imbrattamenti di vernice, di vedere fino a identificare i volti dei personaggi, ossia del nostro prossimo, e a ripristinare, così, una comunità umana.
Nel solco, per l’appunto, della lezione impartita per sempre dalla tragedia greca, s’invera in tal modo – ciò che stabilisce il raro pregio di questo spettacolo, ad un tempo severo e attraversato dagli aliti di un segreto calore – quello ch’è sempre stato, e non può non essere, il fine del teatro.

Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 16/3/2024)

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