Autoritratto retroattivo

Valerio Binasco e Pamela Villoresi in un momento de «La ragazza sul divano», in scena al Carignano
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Virginia Mingolla)

TORINO – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

«Scrivere per me rimane comunque un atto musicale». Ecco, credo che sia questa la più importante dichiarazione che a proposito di sé e della propria opera abbia fatto Jon Fosse, il poeta, romanziere e drammaturgo norvegese, Premio Nobel per la letteratura l’anno scorso, del quale è in scena al Carignano – per la regia di Valerio Binasco, in una coproduzione dello Stabile di Torino e del Teatro Biondo di Palermo – «La ragazza sul divano», il testo, fra i suoi più emblematici, che poi sarà ospitato dal 7 al 12 maggio anche dal nostro Mercadante.
Ovviamente, la dichiarazione citata non va considerata solo ricordando che i primi testi di Fosse furono, come lui ha raccontato, quelli per le melodie che componeva da ragazzo con la chitarra. È decisiva perché rimanda a quanto il 18 giugno del 1895 Hofmannsthal scrisse al guardiamarina E.K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni». E il rimando, a sua volta, è importante perché chiama in causa Georg Trakl, un altro, al pari di Hofmannsthal, dei grandi cantori della «finis Austriae». Per il quale, e davvero non a caso, Fosse ha detto di nutrire una grande ammirazione.
Ebbene, la suprema grandezza di Trakl sta nel fatto che la sua poesia è come l’ultimo guizzo di luce sul ciglio del buio. E si rivela, perciò, in sintonia con un’altra dichiarazione di Fosse: «(…) le cose più importanti non possono essere dette (né in un dialogo espresso con il linguaggio quotidiano, né in un dialogo espresso con quello concettuale) – e proprio in questo consiste la mia arte poetica: dire l’indicibile. Quindi è necessario riuscire ad esprimere quelle cose nello spazio del non detto, nel silenzio, nelle pause». Ciò che, per l’appunto, costituisce lo scopo e l’approdo de «La ragazza sul divano».
Il testo mi fa tornare in mente i primi tre versi di una poesia di Trakl intitolata, ancora non a caso, «Amen»: «Sfacelo per la stanza imputridita; / ombre sui muri gialli; in specchi scuri s’inarca / l’eburnea tristezza delle nostre mani». Sembrano l’eco della situazione che spasima in quel testo. Il quale potrebbe accogliere in epigrafe una battuta di Josef Winkler, ancora un austriaco: «Se potessi mangiarmi vivo, comincerei dalle dita, cosicché non potrei scrivere più».

Michele Di Mauro e Isabella Ferrari in un altro momento dello spettacolo basato sul testo di Jon Fosse

Infatti, ne «La ragazza sul divano» s’invera con lucidità estrema la non meno lucida ed estrema definizione che dello scrivere diede Blanchot: un «gioco insensato». Perché giusto «insensate» risultano, in quanto assolutamente ineffettuali, le parole riferite alle azioni che nella circostanza intercorrono fra i personaggi in campo. Personaggi che non hanno nome. E quello principale è una donna intorno ai cinquant’anni che fa la pittrice ma, contemporaneamente, non fa che dichiarare: «Non so dipingere».
La incontriamo mentre ritocca un quadro che rappresenta, appunto, una ragazza seduta su un divano, con i piedi posati sul suo angolo di sinistra. Ma da qui in poi prende corpo un intrico drammaturgico che costituisce una delle più affilate e coinvolgenti invenzioni del teatro contemporaneo: la ragazza ritratta nel quadro (ce lo fa intuire la battuta: «Non riesco a capire cosa me l’abbia ispirato me ne stavo seduta là sì sul divano e continuavo a vedere») è la donna che l’ha dipinto ritratta da ragazza. Ben a ragione, quindi, potremmo parlare di un autoritratto retroattivo. Perché i ritocchi che via via la donna apporta al quadro sono indotti dagli eventi del passato che emergono dai discorsi suoi e di quanti con lei interloquiscono.
Il marito era un marinaio perennemente lontano che si faceva vivo solo con qualche rarissima cartolina, sicché la donna aveva finito per diventare l’amante del fratello di lui oltre che di un altro uomo non precisato. E in breve, non ci mettiamo molto a constatare che l’insieme dei personaggi – oltre alla donna, al fratello del marito e all’uomo imprecisato compaiono la madre e il padre di lei, appunto la ragazza seduta sul divano e le sue due sorelle – si rivela come un autentico universo concentrazionario, in cui nessun impegno vero è possibile e nessuna parola significa davvero qualcosa.
Basta considerare, al riguardo, le battute della donna: «qualcosa dovevo pur fare» e «qualcosa si deve pur dire». Senza contare che spesso le risposte date da taluni dei personaggi alle battute dei loro interlocutori si riducono appena alla ripetizione della parte finale di quelle battute. Vedi, tanto per fare un esempio, questo colloquio fra la donna e l’uomo: Donna: «Quando ero fuori ero a fare la spesa» – L’uomo: «Sì» – Donna: «Ho visto una ragazzina» – L’uomo: «Una ragazzina»; e ancora: Donna: «E lei mi ha vista mi sono accorta che mi ha vista. E poi si è spaventata» – L’uomo: «Si è spaventata».
La conseguenza di un tale concertato di non detto viene indicata dalla donna con precisione addirittura chirurgica, quando dice: «Non riesco a stare insieme a qualcuno E non riesco a stare da sola». E se dice, la donna: «Ora provo a dipingere un quadro di una ragazza sul divano», subito dopo aggiunge: «e sarà soltanto un quadro di una ragazza sul divano». Di modo che, quando la ragazza interviene dicendo: «Sono brava a disegnare Forse potrei dipingere un quadro», replica a mo’ di spiegazione: «Io non so dipingere perché dipingo solo ciò che vedo Ma la vita non la puoi vedere E quelli che sanno dipingere dipingono sì quello che non si vede che è la vita dipingono la vita ciò che svanisce e si trasforma».

Da sinistra, Giulia Chiaramonte e Giordana Faggiano. La regia è di Valerio Binasco

È il sorprendente ma fondatissimo ricalco di quel che dice il protagonista della novella di Pirandello «La carriola»: «Chi vive, quando vive, non si vede (…). Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina, come una cosa morta la trascina. Perché ogni forma è una morte».
Già, la condanna dei personaggi portati alla ribalta da Fosse è quella d’essere prigionieri del tentativo di dare una forma a quanto forma non può avere. Straordinariamente simbolica appare, al riguardo, la quasi totale assenza di punteggiatura che distingue la scrittura dell’autore norvegese. E il tutto, infine, si condensa nell’ultima didascalia: «Donna va a sedersi sull’angolo destro del divano, anche lei solleva i piedi e li appoggia sul divano. La Ragazza e la Donna si guardano». È la lancinante riproposizione degli «specchi scuri» di Trakl.
«La ragazza sul divano» è un testo del 2002 che debuttò nello stesso anno al Festival di Edimburgo, per la regia di Thomas Ostermeier. E secondo il parere di Fosse quella messinscena poneva l’accento sull’aspetto sociale dell’opera. Invece, Valerio Binasco – con molto acume, e perfettamente in linea con tutto quanto sopra – immerge il testo in un’atmosfera rarefatta, ch’è la sola immaginabile per la dimensione mentale qui determinata.
Ne deriva che i personaggi appaiono come l’esatto equivalente degli elettrodomestici (una lavatrice e un frigorifero) che, insieme col divano fatidico, galleggiano nel vuoto circostante. E sulla parete di fondo, se per un momento le pennellate di un video accennano ai ritocchi apportati al ritratto, subito altre pennellate arrivano a cancellare le precedenti, perché il tempo non è che un susseguirsi di soprassalti della coscienza isolati e mai uguali fra loro. Così Binasco giunge all’invenzione finale, quella decisiva e rapinosa: la pittrice che dice di non saper dipingere sparisce dietro un grande quadro coperto da un panno. Non sappiamo se sotto quel panno ci sia effettivamente un dipinto, né che cosa rappresenti. È solo che gli specchi si sono infranti, e sono finiti i ricordi, «queste ombre troppo lunghe», per dirla con Cardarelli, «del nostro breve corpo».
Splendida, poi, la compagnia in campo, capeggiata da Pamela Villoresi (la Donna), da Isabella Ferrari (la Madre) e dallo stesso Valerio Binasco (l’Uomo). Parlo, insomma, di uno degli spettacoli più intelligenti e intriganti che abbia visto negli ultimi anni. Oscilla tra gli opposti di Pascoli («C’è una voce nella mia vita / che avverto nel punto che muore») e della canzone delle guardie svizzere («La nostra vita è un viaggio / nell’Inverno e nella Notte, / noi cerchiamo il nostro varco / nel Cielo dove niente luce») che fa da epigrafe al «Voyage» di Céline. Perché noi siamo per l’appunto questo, una molteplicità irriducibile e imperscrutabile.

Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 22/3/2024)

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *