Una gallina sul trono

La scena iniziale di «Re Chicchinella» di Emma Dante, in scena al Piccolo Teatro Studio Melato
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Masiar Pasquali)

MILANO – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Con «Re Chicchinella» – uno spettacolo presentato nel Teatro Studio Melato e coprodotto, fra gli altri, dal Piccolo e dal Teatro di Napoli – Emma Dante conclude il suo viaggio in tre tappe dentro «Lo cunto de li cunti» di Basile.
Le due tappe precedenti erano state gli spettacoli «La scortecata», tratto dal decimo racconto, «La vecchia scortecata», della prima giornata del «Cunto» e presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto del 2017, e «Pupo di zucchero», ispirato al terzo racconto, «Pinto Smauto (Smalto Splendente)», della quinta giornata del capolavoro basiliano e presentato nel Teatro Grande come una delle proposte di spicco della quarta edizione, datata 2021, della rassegna «Pompeii Theatrum Mundi» promossa dal Teatro di Napoli. E occorre aggiungere che se nel caso de «La scortecata» la Dante si manteneva sostanzialmente fedele al racconto di Basile, qui, come già avveniva in «Pupo di zucchero», ciò che narra il «Cunto» si manifesta solo in quanto suggestione iniziale.
L’ispirazione è fornita dal primo racconto della quinta giornata, «La papara (La papera)». Si tratta di due sorelle, Lilla e Lolla, che comprano al mercato per l’appunto una papera, che però, rispetto alle sue simili, possiede la virtù di cacare denari. Ma quando, chiesta in prestito da alcune comari, smette di farlo e torna a cacare quel che di solito cacano le papere, le predette comari le tirano il collo e la gettano dalla finestra. Salvo che la papera in questione non era morta, e s’attacca al culo di un principe appartatosi per andar di corpo. Riesce a staccarla da lì soltanto Lolla, e per questo il principe se la sposa.
Nello spettacolo di Emma Dante, invece, al posto della papera troviamo una gallina e al posto del principe un re. E la gallina della Dante non si limita ad attaccarsi al culo del re. Gli entra dentro, mangia tutto quello che butta giù nello stomaco lui e gli fa cacare uova d’oro. Sicché il re, per porre un argine alle sue sofferenze, decide di non mangiare più. E si scontra quindi con la corte, che naturalmente bada a che non s’interrompa la produzione delle preziose uova. La conclusione è che, quando si tenta col forcipe di estrargli dal corpo la gallina, il re muore. E la gallina gli si sostituisce sul trono.
Tutto questo stabilisce una differenza sostanziale, e acuta e coinvolgente, rispetto al racconto di Basile. Che si basa sull’invidia delle comari nei confronti di Lilla e Lolla («… non c’è pertuso a la fraveca de lo Munno dove non faccia la tela sto marditto ragno de la ‘midia»), mentre nella riscrittura di quel racconto da parte della Dante si accede al ben più vertiginoso e attuale tema costituito dal fatto che accogliamo dentro di noi (nella nostra mente e nel nostro cuore, nelle nostre convinzioni e nei nostri sentimenti, nel complesso delle nostre informazioni e nel quadro dei nostri comportamenti) le derive, spesso addirittura reazionarie, indotte dal Potere per condizionarci e, di conseguenza, manovrarci, a partire dall’omologazione in cui c’imprigiona.

Annamaria Palomba e Carmine Maringola in un altro momento dello spettacolo, ispirato a Basile

Infatti, nel testo di Emma Dante il re, dopo aver pronunciato una violenta requisitoria contro chi gli sta intorno («(…) se quaccheduno mi domandasse dove se potarrìa trovare lo fingimento e la frode io non saparrìa menzionare autro luogo che chesta Corte, dove facite sempre le maschere, la mormorazione da trastullo, lo trademiento da Zanne e la furfanteria da Pullicinella»), prima di morire conclude amaramente: «Pigliataville sta chicchinella. Se io songo essa o essa è me, pe’ vuie è ‘a stessa cosa!».
Parliamo, allora, di un apologo tanto divertente quanto inquietante. E che, dunque, sul piano della forma rispecchia con ammirevole fedeltà il dettato di Basile: il quale, come sappiamo, ci ha fornito l’esempio più rilevante della scrittura di tipo anfibologico, quella che, cioè, si presta a una doppia interpretazione. Basile, in breve, nascose sotto un’innocua superficie narrativa quanto non poteva dire apertamente per non incorrere nei fulmini della Controriforma. E tramite quest’espediente riuscì nell’impresa di trasmettere, a parte la famosa morale propria delle favole, riferimenti allegorici a precise realtà culturali, sociali e persino politiche.
È quanto fa anche Emma Dante, come ho accennato. Lo fa, intanto, ricalcando con sapienza l’allusivo mélange di «alto» e «basso» praticato da Basile: giacché, a brani di squisita fattura poetica (tipo, per intenderci: «(…) è l’ora che lo sole ne lo mercato de li campi celesti mette in mostra le mercanzie di luce purtate dall’oriente e con lo pennello de li raggi sta jancando lo cielo annerito dalle ombre della notte»), alterna, ciò che faceva anche ne «La scortecata», le sconcezze via via più pesanti di cui è tessuto il linguaggio corrente qui adoperato: è un autentico stillicidio, per fare solo qualche esempio, di «culo ‘ncrastagnato de mmerda», «fieto de cacazzara», «zompapereta» e «annettalatrine».
Si tratta di una sottolineatura radicale e pertinente dello scarto determinato fra la dimensione onirica e quella realistica del racconto in sé. Uno scarto che, del resto, viene ribadito, per fare un altro esempio, dall’accoppiata della caterva di titoli nobiliari di cui si fregia il monarca in questione («Re Carlo III d’Angiò, re di Sicilia e di Napoli, principe di Giugliano, conte d’Orleans, visconte d’Avignon e di Forcalquier, principe di Portici Bellavista, re d’Albania, principe di Valenzia e re titolare di Costantinopoli») e del divertentissimo confronto, una sorta di «strascino» da sceneggiata, fra la cucina siculo-napoletana e quella francese, con, poniamo, i «babbaluci chine ‘e burro e aglio ca pe l’alleggerì ce vo’ ‘nu mese» e la «frittatina al forno» da una parte e gli «escargots» e la «quiche lorraine» dall’altra.

Al centro, ancora Carmine Maringola, protagonista di questa riscrittura da «Lo cunto de li cunti»

Occorre aggiungere che, per di più, il divertimento innescato da tali sortite farsesche sposa con efficacia straniante gli affondi di non trascurabili escursioni nei territori dell’antropologia culturale. A cominciare proprio dalla sostituzione della papera di Basile con una gallina: è un’invenzione che rimanda alla significante coerenza che distingue la poetica della regista siciliana.
In «Pupo di zucchero» ci si riferiva al 2 novembre, il giorno in cui s’immagina – in Sicilia, ma nei Sud del mondo in genere – che i morti arrivino a farci visita, sicché si cucinano, giusto, dei pupi di zucchero che li raffigurano e che, mangiati, li fanno tornare «dentro» i loro cari ancora in vita. E qui, in «Re Chicchinella», ci si riferisce al fatto che, nelle culture ancestrali, ovvero nelle culture del profondo, la gallina è un simbolo dell’oltretomba. Tanto che adotta movimenti da gallinaceo anche Pulcinella, tecnicamente definibile, per l’appunto, come «maschera anima di morto».
Sono gli stessi movimenti che in «Re Chicchinella» adottano a tratti le damigelle che sfarfalleggiano intorno al sofferente sovrano. E maschere di gallina indossano i cortigiani che vediamo riuniti in gruppo, come per una foto ricordo, appena comincia lo spettacolo: a sottolineare l’omologazione indotta dal Potere di cui sopra.
Per il resto trionfa ancora una volta quella che è, da sempre, la caratteristica pregnante e preziosa del teatro di Emma Dante: la tensione perenne delle parole ad annegarsi in una fisicità che le mondi da ogni scoria retorica, per restituirle a una fraternità operativa fra il suono e il gesto. E bravissimi a gestire questa dualità risultano gl’interpreti in campo: primi fra tutti Carmine Maringola (il re), Annamaria Palomba (la regina), Angelica Bifano (la principessa), Davide e Simone Mazzella (i due paggi) e Stéphanie Taillandier (la dama d’onore).
Finisce con la gallina (una gallina vera) che razzola sul tumulo del re, fatto delle vesti luttuose di chi ha finto dolore per la sua morte, mentre si sente «Passacaglia» di Battiato: «Vorrei tornare indietro per rivedere il passato, / per comprendere meglio quello che abbiamo perduto». E un brivido ci corre nella testa e nell’anima al pensiero di quanto di umano lasciamo lungo la strada.

Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 27/3/2024)

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