Con Servillo le «Voci» di Eduardo si fanno più cupe

Da sinistra, Peppe e Toni Servillo in una scena de «Le voci di dentro»

Da sinistra, Peppe e Toni Servillo in una scena de «Le voci di dentro»

Lo dico subito. Questo – l’allestimento de «Le voci di dentro» firmato da Toni Servillo ed ora in scena al San Ferdinando – è uno spettacolo importante. E non perché sia perfetto (più di un personaggio vi risulta debole), né per i premi che gli sono stati attribuiti (forse troppi, e comunque tanti da lasciar sospettare il suggello a una moda), né, infine, perché è impegnato in prestigiose tournée internazionali (che rientrano, sostanzialmente, nell’ambito commerciale del teatro).
No, quest’allestimento de «Le voci di dentro» è importante perché – cosa ulteriormente significativa in vista del trentesimo anniversario della morte di Eduardo – costituisce una dimostrazione esaustiva di come si possa, con intelligenza e creatività, rinverdire un «classico», e metterlo in comunicazione col presente, senza tradire il pensiero dell’autore, ma, anzi, illuminandolo ed estendendone la portata e l’efficacia.
In breve, non so fare a Servillo un elogio migliore del dirgli che il suo spettacolo invera, una per una, le ultime parole del commento a «Le voci di dentro» che Eduardo, tenendomi un braccio intorno alle spalle, volle affidarmi – proprio sul palcoscenico del San Ferdinando, sotto i grappoli delle sedie «scassate» dei Saporito – la sera dell’8 gennaio del ’77, due ore scarse prima del debutto: «Questa commedia è oggi ancor più attuale di quanto fosse nel ’48: viviamo brutti tempi, e il dovere di un artista degno di questo nome è quello di mostrare alla gente la realtà, per quanto sgradevole essa sia».
Certo, a un simile risultato concorre in misura decisiva la prova dello stesso Toni Servillo e di suo fratello Peppe, rispettivamente nei panni di Alberto e Carlo Saporito: giacché, se il primo adotta una recitazione che diventa il nevrotico e inquietante basso continuo dell’amarezza di tutti noi, il secondo illustra come meglio non si sarebbe potuto la visione zoomorfa (è il «verme bianco cu ‘a capuzzella nera» sognato da Maria) che del personaggio, come mi confidò, ebbe Eduardo. Senza contare che la regia lo rende ancora più laido e avido di quanto sia nel testo originale: insiste a strisciare con gli occhi sul petto della cameriera e tracanna subito, tutto d’un fiato, il bicchiere di vino che lei gli ha porto, ben prima d’assaggiare i maccheroni bruciacchiati di Rosa.
Ecco, la regia di Toni Servillo. È con essa che poi, al di là delle strepitose «performances» attorali dei due coprotagonisti, si riassume e si esalta l’«attualizzazione» di cui sopra. Intanto, constatiamo che viene applicata una vera e propria sordina agli effetti comici scritti a copione (vedi, tanto per dirne solo una, la cancellazione della battuta rivolta da Alberto Saporito a Capa d’Angelo: «Scendete sicuro perché la fidanzata non la incontrerete!»); e, come se non bastasse, assistiamo a un finale che annega l’intero spettacolo in un buio agghiacciante: dopo la requisitoria inflitta dal fratello ai Cimmaruta («Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni… il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia!»), Carluccio Saporito si addormenta, fino a russare.
Già, sono l’indifferenza e l’ebetudine il veleno che ci sta uccidendo. E dunque, per concludere, quest’allestimento di Toni Servillo rende ancora più cupo il già cupo pessimismo manifestato dall’autore; e, così, conquista il merito grande di collocare «Le voci di dentro» sul terreno di quell’«abiezione universale» che individuò come bersaglio dell’opera eduardiana Luigi Compagnone, appunto il nostro maestro di «amara scienza».

                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Il Mattino», 4 gennaio 2014)

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