«Orchidee», lo scontro feroce fra il teatro e la vita

Pippo Delbono e Bobò in una scena di «Orchidee» - foto di Mario Brenta e Karine De Villers

Pippo Delbono e Bobò in una scena di «Orchidee» – foto di Mario Brenta e Karine De Villers

ROMA – «Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti così sfuggita da voi».
Ancora una volta m’è tornata in mente, la decisiva e bellissima battuta che l’Enrico IV di Pirandello rivolge al presunto Abate Ugo di Cluny, mentre all’Argentina di Roma assistevo a «Orchidee», il nuovo spettacolo di Pippo Delbono presentato da Emilia Romagna Teatro. Infatti, anche qui, come nel capolavoro del drammaturgo girgentino, si tratta dello scontro tra una Forma, consolatoria e illusoria insieme, e la forza indomabile e anarchica della Vita.
Solo che Delbono va molto più in là di Pirandello: la sua «tonaca santa» è, puramente e semplicemente, il teatro stesso, che – si legge nelle note di regia – «spesso sento un luogo diventato troppo polveroso, finto, morto. La menzogna accettata della rappresentazione teatrale»; e contro questa Forma si ergono – impavide e inarrestabili – le «sorprese» di una Vita che è, sì, il susseguirsi di momenti di disgregazione che l’uomo, perennemente e disperatamente, tenta di bloccare per l’appunto imprigionandolo in una Forma, per sempre data e per sempre riconoscibile, ma è anche la vestale di una bellezza infinita.
È infinita, questa bellezza, proprio perché si rifiuta di cristallizzarsi in una Forma, ma di continuo muore a se stessa perché è l’unico modo per donarsi. Ed ecco la metafora incarnata dall’orchidea: «è il fiore più bello», dice Delbono, e in pari tempo «il più malvagio, perché non riconosci quello che è vero da quello che è finto».

Pepe Robledo e Gianluca Ballaré in un altro momento di «Orchidee» - foto di Mario Brenta e Karine De Villers

Pepe Robledo e Gianluca Ballaré in un altro momento di «Orchidee» – foto di Mario Brenta e Karine De Villers

Tutto si tiene, allora, in questo spettacolo straordinario, tanto duro e impietoso quanto dolce e misericordioso. E l’ossimoro, ovviamente, si traduce nello scarto inesausto determinato, giusto, tra la formalizzazione estrema e l’evasione immemore: vedi, da un lato, la citazione del melodramma come forma chiusa per eccellenza (il «Nerone» di Mascagni) e dello Shakespeare più proverbiale («Amleto» e «Romeo e Giulietta») e, dall’altro, il frequente abbandonarsi degli interpreti a una danza lieve e giocosa. Mentre, a sua volta, il parallelo scarto tra la finzione e la verità si manifesta, poniamo, con il ricorso al playback da un lato e, dall’altro, con le immagini strazianti dell’agonia della madre di Pippo tratte dal suo film «Sangue».
Non è un caso, del resto, che un ruolo importantissimo svolgano, in «Orchidee», la musica e il canto di Enzo Avitabile: ce ne accorgiamo quando, in uno dei sottofinali, gl’incomparabili attori di Delbono trasferiscono una delle loro danze in platea sull’onda di un brano che cita e contestualmente frantuma una forma tra le più acclarate della tradizione partenopea, il tempo battuto in uno della tammurriata. E rimasto solo sul palcoscenico, Bobò, il microcefalo sordomuto che Pippo raccolse nel manicomio di Aversa, invera quel brano attraverso il miracolo del suo corpo. Un corpo glorioso perché, non potendo né comunicare né ricevere comunicazione, comunica soltanto se stesso e, dunque, è al riparo da qualsiasi costrizione formale.
Insomma, questo è uno spettacolo che a Napoli andrebbe visto. E si potrebbe, nel merito, lanciare un suggerimento al San Carlo: dal momento che Pippo Delbono sarà il mattatore della sua stagione estiva (con l’allestimento di «Madama Butterfly» e la riproposta di «Cavalleria rusticana»), perché non onorare il detto del non c’è due senza tre ospitando almeno una replica di «Orchidee»? In fondo, come s’è annotato, con il melodramma c’entra, e non poco.

                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Il Mattino», 11 gennaio 2014)

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