Se nella notte di mezza estate sognano i bambini

Da sinistra, Igor Horvat e Anahì Traversi in un momento del «Sogno di una notte di mezza estate» prodotto dal LAC (le foto che illustrano questo articolo sono dello Studio Pagi)

Da sinistra, Igor Horvat e Anahì Traversi in un momento del «Sogno di una notte di mezza estate» prodotto dal LAC
(le foto che illustrano questo articolo sono dello Studio Pagi)

LUGANO – Come sappiamo, il «Sogno di una notte di mezza estate» è uno dei testi di Shakespeare che maggiormente si son prestati alle invenzioni dei registi, acute, divertenti o semplicemente cervellotiche che fossero. E ciò perché si tratta di un testo che – ad onta della leggerezza e della dimensione del gioco che lo connotano – risulta estremamente complesso, e nella forma e nei contenuti: tanto da autorizzare, per l’appunto, le più varie e variamente plausibili letture.
Per quanto riguarda la forma, basta por mente alla commistione degli stili (dall’aulico al sentimentale, dal comico al farsesco) qui virtuosisticamente – ma anche con ironia – messi in campo dal Bardo. E i contenuti, poi, discendono da una non meno fitta rete di fonti, che vanno – per citarne solo alcune – da Chaucer a Plutarco, da Ovidio ad Apuleio, dal folclore inglese a quello norvegese, dalle saghe dei Nibelunghi alla «chanson de geste».
Come se non bastasse, a tutto questo si aggiunge il fatto che nel «Sogno di una notte di mezza estate» si accumulano ed aggrovigliano ben cinque intrecci distinti: quello delle nozze fra il duca di Atene, Teseo, e la regina delle Amazzoni, Ippolita; quello di Oberon e Titania, il re e la regina del mondo delle fate in lite fra loro a causa di un fanciullo al servizio di Titania e del quale s’è perdutamente invaghito Oberon; quello delle coppie Ermia-Lisandro ed Elena-Demetrio; quello del carpentiere Quince e del tessitore Bottom, che guidano un gruppo di artigiani ateniesi nella recita di un intermezzo presentato durante i festeggiamenti per le nozze di Teseo e Ippolita; e, infine, quello relativo alla «lamentevole historia» di Piramo e Tisbe, oggetto dell’intermezzo medesimo.
Ovviamente, la base drammaturgica di un simile mélange consiste nella dicotomia stabilita da Shakespeare fra il giorno (la realtà, ovvero la corte di Atene) e la notte (giusto il sogno, ovvero il bosco incantato degli elfi e delle fate in cui spariscono le identità e ci s’innamora del primo essere veduto al risveglio). E da qui mosse l’insuperata analisi del testo in questione svolta in un suo celebre saggio da Jan Kott.
In breve, il grande studioso polacco partiva dall’interrogativo: «Quand’è che il teatro mostrerà finalmente in Puck il fauno, il diavolo e l’Arlecchino?» e concludeva con l’osservazione: «La riduzione del personaggio a partner amoroso mi pare la caratteristica più essenziale di questo sogno crudele. E forse la più moderna. Il partner non ha più un nome, non ha neanche un volto. È semplicemente quello più vicino. Come in certe opere di Genet, in cui non esistono dei personaggi precisi, ma solo delle situazioni. Tutto diviene ambivalente».

Da sinistra, Igor Horvat, Anahì Traversi ed Emilia Tiburzi in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Igor Horvat, Anahì Traversi ed Emilia Tiburzi in un altro momento dello spettacolo

Assolutamente emblematico, in tale contesto, appare dunque il personaggio dello stesso Puck, il folletto incaricato da Oberon di versare sulle palpebre dei dormienti il succo della viola del pensiero che li indurrà, come s’è detto, a innamorarsi del primo essere veduto al risveglio: quel Puck che – avendo dato a Bottom le sembianze di un asino e avendo indotto Titania a innamorarsene – con ciò chiama in causa (ricordo ch’è proprio Bottom a interpretare Piramo) lo scarto fra l’illusione e la coscienza, ossia fra il teatro e la vita.
Non a caso, del resto, è Bottom che (cito la traduzione di Giulia Celenza) nella prima scena del quarto atto dice: «Occhio d’uomo non udì, orecchio d’uomo non vide, mano d’uomo non gustò, né lingua concepì, né cuore narrò mai, un sogno come il mio»; ed è ancora lui che più avanti pronuncia la sibillina battuta: «Compari, ho da raccontarvi maraviglie; ma non chiedetemi quali; perché, se ve le raccontassi, non sarei più un vero ateniese. Vi riferirò ogni cosa, per filo e per segno».
Questo sogno, insomma, si vorrebbe, sì, raccontarlo, ma in pari tempo ci si rende perfettamente conto che non si può farlo. Potrebbe farlo solo un bambino, giacché solo i bambini sono capaci di mettere esattamente sullo stesso piano la realtà e la fantasia, sino al punto di considerarle equivalenti. Ed è questa l’idea da cui è partito Andrea Chiodi, regista dell’allestimento del «Sogno di una notte di mezza estate» che ha aperto in «prima» assoluta la stagione del centro polifunzionale LAC (Lugano Arte e Cultura). Nelle sue note scrive: «(…) tutto nell’opera ci racconta di razionalità e magia, di pensiero e rituale, sempre su un doppio binario e soprattutto sempre attraverso il mezzo del gioco quasi infantile, del capriccio da bambini, delle paure dei bambini e soprattutto della capacità di giocare ad essere altro da sé che solo i bambini sembrano avere e che in realtà spesso è così desiderata anche dai grandi. Forse la strada che ci indica Shakespeare è quella di tornare in contatto con l’irrazionale, con il bambino che ognuno ha dentro di sé».
Parliamo, d’altronde, di un’idea già concepita in precedenza, e che ha trovato applicazioni note. Ricordo, per esempio, che nel 1990 Jérôme Savary, portando a Taormina il suo allestimento del «Sogno di una notte di mezza estate» realizzato per il Festival di Avignone, mise in palcoscenico un gruppo di bambini del posto. E per proprio conto Chiodi trova su questo terreno alleati validi nella traduzione e nell’adattamento di Angela Dematté.

Da sinistra, ancora Emilia Tiburzi e Alfonso De Vreese. La regia è di Andrea Chiodi

Da sinistra, ancora Emilia Tiburzi e Alfonso De Vreese. La regia è di Andrea Chiodi

Sempre a titolo d’esempio, qui il raffinato canto con cui nella seconda scena del secondo atto le fate propiziano il sonno di Titania («Ninna-nanna, ninna-nanna; / ninna-nanna, ninna-nanna; / sia malia, / sia magia, / da Titania lunge stia. / Buona notte, in melodia») viene sostituito con la celeberrima e popolarissima ninna nanna di Lina Schwarz («Stella stellina la notte si avvicina / la fiamma traballa la mucca è nella stalla / la pecora e l’agnello / la mucca col vitello / la chioccia col pulcino / la mamma e il suo bambino / e tutti fan la nanna / vicino alla sua mamma»). E con ciò dico anche dell’altra caratteristica portante della traduzione e dell’adattamento della Dematté: la spinta al testo shakespeariano – attestato fondamentalmente su un tono verbale alto e preziosistico – verso una quotidianità persino gergale, che obbedisce al duplice intento di rafforzare il comico e il farsesco di cui sopra e di battere in breccia la «proverbialità» della commedia lirica in parola.
Così, se nella seconda scena del primo atto assistiamo a uno scambio di battute fra Quince e Bottom degno del più disinvolto avanspettacolo (Quince: «Rispondete quando vi chiamo. Nicola Bottòm, il tessitore?» – Bottom: «Bòttom, all’inglese, Bòttom…»), in seguito sentiremo equiparare Cupido a uno dei «bulletti» che «fanno gli spergiuri quando giocano»; e «buzzurro» chiama Puck il Lisandro che nel testo originale aveva chiamato meno brutalmente «villano». È, d’altra parte, il Puck che adotta anche lui, proprio come un bambino, taluni versi della ninna nanna della Schwarz, mentre giova ricordare che il suo nome viene dall’antico norvegese «puki» e dai termini dialettali della Cornovaglia «pukka» o «pixy», che stanno (di qui l’osservazione di Kott) per «demonio della terra».
Venendo adesso allo spettacolo in sé, constato che è fedele all’idea di partenza in termini finanche scolastici. A cominciare dall’impianto scenografico di Guido Buganza, che trasforma il bosco incantato di Shakespeare in un vero e proprio parco giochi per bambini, con tanto di scivolo e di giostra. E il primo personaggio a entrare in scena è un personaggio inventato, per l’appunto una bambina: sbuca dalla quinta di destra cantando «Giro girotondo / casca il mondo / casca la terra / tutti giù per terra» e recando con sé la testa d’asino che poi sarà affibbiata a Bottom; e da quella quinta starà a spiare, dall’inizio alla fine, tutto quanto accadrà nel corso della rappresentazione, proprio come se fosse un suo sogno.
L’unico scarto rispetto a una simile impostazione di fondo è il fatto che il personaggio di Puck viene affidato a una donna: col che si rimanda efficacemente all’«ambiguità» che lo distingue. E per ciò che attiene infine alla prova fornita dagli interpreti, annoto che accanto ai veterani Igor Horvat (Teseo e Oberon) e Anahì Traversi (Ippolita e Titania) agiscono dei giovani che, appunto a causa della loro età, non possono non dar luogo a qualche debolezza espressiva e a talune cadute di ritmo.
I migliori mi sembrano Beatrice Verzotti (Puck e Filostrato), Alfonso De Vreese (Bottom) ed Emilia Tiburzi (la bambina e la fata). Ma quel che importa è che la maggior parte dei giovani interpreti in campo è alla prima esperienza di lavoro dopo aver frequentato la scuola «Luca Ronconi» del Piccolo Teatro di Milano: è così, inutile sottolinearlo, che si dà un senso concreto alla didattica e alla dimensione della teoria in genere.

                                                                                                                                         Enrico Fiore

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