Quando alla porta bussa l’assurdo

Da sinistra, Martin Zeller e Graham F. Valentine in un momento di «Aucune idée» (le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Julie Masson)

Da sinistra, Martin Zeller e Graham F. Valentine in un momento di «Aucune idée»
(le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Julie Masson)

Riporto il commento, pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», su «Aucune idée», lo spettacolo di Christoph Marthaler che sarà presentato a settembre nell’ambito della sezione internazionale del Campania Teatro Festival.

Dunque, il 23 e il 24 settembre il Théâtre Vidy-Lausanne presenterà al Bellini, nell’ambito della sezione internazionale del Campania Teatro Festival, «Aucune idée (Nessuna idea)» di Christoph Marthaler. E l’evento è significativo non solo di per sé (dato che si tratta del nuovo spettacolo di uno dei maggiori registi di oggi), ma anche e soprattutto perché Marthaler ebbe – cosa che nessuno ha rilevato né, figuriamoci, ricordato – un incontro di straordinaria importanza con la grande tradizione teatrale napoletana.
Nel 2001 mise in scena alla Volksbühne dell’ex Berlino Est nientemeno che «I dieci Comandamenti» di Viviani. Io vidi lo spettacolo nel marzo del 2006, quando fu dato dal Piccolo allo «Strehler», nell’ambito del Festival dei Teatri d’Europa. E appena arrivai in teatro, mi ritrovai ad essere letteralmente assediato dai colleghi e dagli addetti ai lavori in genere: tutti curiosi di sapere come consideravo – da napoletano e, per giunta, da esperto di Viviani – quell’operazione che almeno nel senso etimologico dell’aggettivo («fuori dal centro») veniva subito fatto di definire, per l’appunto, eccentrica.
Io stesso, del resto, nutrivo curiosità, e una curiosità non disgiunta dal timore. Che c’entrava con Viviani (e che aveva capito, di Viviani e di un testo come «I dieci Comandamenti», particolarmente ostico anche perché incompiuto) uno svizzero-tedesco nato ad Erlenbach, nel cantone di Zurigo? Ma poi, dopo aver visto lo spettacolo, mi risultò chiarissimo e oltremodo persuasivo il quadro storico, ideologico e drammaturgico che l’aveva ispirato.

Christoph Marthaler

Christoph Marthaler

Già il luogo in cui l’allestimento era nato e l’ente che l’aveva prodotto erano estremamente indicativi: in quale teatro tedesco poteva essere di casa Viviani, se non, giusto, in quella Volksbühne (alla lettera «Palcoscenico del Popolo») che s’affaccia sulla piazza intitolata a Rosa Luxemburg? E inoltre, al di là delle «affinità elettive» fra Viviani e Berlino Est, davvero impressionante appariva la contiguità ch’era possibile riscontrare fra «I dieci Comandamenti» e la situazione della Germania orientale nella complessa fase dell’unificazione con quella occidentale: nell’ultimo quadro del testo vivianeo s’accenna al «grande avvenire» che avrebbe dovuto avere Napoli dopo la guerra, e per esempio al casinò alto come un grattacielo che avrebbero dovuto costruire gli americani a Santa Lucia; e immediata veniva in mente Christa Wolf, la scrittrice tedesco-orientale che fece di Medea l’emblema dell’attesa di un salto di qualità (in ogni senso) da parte della Rdt e del tradimento di quell’attesa, dopo la caduta del Muro di Berlino, da parte del capitalismo tedesco-occidentale.
Credo proprio che Marthaler avesse pensato a tutto questo. E comunque, il pregio decisivo del suo spettacolo era che ricreava perfettamente l’«aura» del testo di Viviani e della Napoli che vi si accampa. In specie, io non avevo mai visto gli stereotipi dell’immaginario collettivo riferiti a Napoli (e spessissimo dagli stessi napoletani alimentati e praticati) esposti a teatro con tanta precisione e, nello stesso tempo, con tanta determinazione irrisi. Basterebbe considerare la sequenza iniziale. Portando in chiesa quel che Viviani aveva collocato in strada (la processione del Santissimo che passa nel primo quadro), Marthaler concentrava e moltiplicava il tema della religiosità; ma, poi, il coro dei fedeli, debitamente accompagnato dall’organo, nei modi dell’inno liturgico adottava, addirittura, il coro dei soldati («Son sei sorelle»…) de «La Gatta Cenerentola» di Roberto De Simone.
Ma eccomi, ora, ad «Aucune idée». Il primo dato, più che evidente, è la sproporzione fra quel titolo e la massa di citazioni letterarie e musicali di cui si compone lo spettacolo. Per la cronaca, sul piano letterario abbiamo testi tratti dalle opere in prosa e in versi di Walter Abish, Kurt Kusenberg, Henri Michaux, Georges Perec, Kurt Schwitters, Edith Sitwell, Richard Wagner, Rosemarie Waldrop e Malte Ubenauf, che firma anche la drammaturgia; e su quello musicale si affollano lo stesso Wagner, Schubert, Bach, Skinner, Morley, Forqueray, Saint-Saëns, una canzone popolare irlandese e una di Léo Ferré su versi di Baudelaire.
Come si vede, di idee ce ne sono in gran copia. E si capisce, allora, che lo spettacolo – affidato all’interpretazione dell’attore e cantante scozzese Graham F. Valentine, storico collaboratore di Marthaler, e del violista da gamba Martin Zeller, un altro complice di lunga data del regista – si fonda su una totalizzante sottolineatura per contrasto: il quadro complesso di quelle citazioni, spesso raffinatissime, serve a rimarcare il vuoto di pensiero in cui si contorce il mondo attuale, preda della confusione e incerto sulla strada da intraprendere per reinventarsi o, almeno, per provare a farlo.

Da sinistra, Graham F. Valentine e Martin Zeller in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Graham F. Valentine e Martin Zeller in un altro momento dello spettacolo

Non appare casuale, dunque, la scelta degli autori citati. E alle corrispondenze fra loro si aggiunge quella fra loro e chi li interpreta: tanto per fare un esempio, la predilezione per gli elenchi di Perec trova un perfetto riscontro nell’elenco delle Bibbie compilato da Valentine, che comprende, poniamo, la «Bibbia adultera», la «Bibbia dei calzoni», la «Bibbia dei cammelli», la «Bibbia dei peccati dimenticati», la «Bibbia per famiglie numerose», la «Bibbia degli assassini», la «Bibbia dei pesci in piedi» e la «Bibbia che odia la moglie».
Già, l’irriverenza scandita dall’acume elegante di cui Marthaler è maestro. E ancora non a caso, poi, l’impianto scenografico di Duri Bischoff ci mostra un ambiente quotidiano che si traduce in una terra di nessuno: il pianerottolo di un condominio qualsiasi con le porte che vi si aprono. Dato quel che ho detto sopra, mi viene spontaneo – per riassumere il senso, le forme e i ritmi di «Aucune idée» – pensare a un Kafka che venga a trovarsi nell’«Albergo del libero scambio» di Feydeau. E infatti, il pianerottolo in questione è il teatro che ospita «Le cambrioleur», uno dei tipici racconti brevi di Kusenberg intrisi di assurdo e di grottesco.
C’è da precisare, al riguardo, che in francese la parola che indica il ladro in genere è «voleur», mentre il termine «cambrioleur» indica il ladro che procede per effrazione. E poiché qui, come vedremo subito, non c’è alcuna effrazione, siamo trascinati, già dal titolo del racconto, in un’atmosfera che accoppia l’assurdo e il grottesco con il surreale, il paradossale e – «last but not least» – l’allusivo.
Il signore che abita in uno degli appartamenti che danno sul pianerottolo di Duri Bischoff apre la porta e si trova di fronte un tizio che, alla sua domanda: «Che cosa la porta qui?», risponde con la massima semplicità: «Vorrei svaligiare casa sua». Poi precisa: «Ad essere sincero, volevo derubarla con professionalità, entrando dal balcone. Ma ero troppo stanco». E quando il padrone di casa gli dice: «Non ho un balcone», commenta: «Ah, non ha un balcone. Quindi non avrebbe funzionato comunque». E quando il suo interlocutore gli confessa di avere in casa solo trentacinque euro e lui obietta che «non sono tanti» e sono «soldi duri» per tutte le scale che ha dovuto salire, si sente rispondere: «Se avessi saputo che sarebbe venuto, mi sarei trasferito al piano di sotto». E così via…
Ma per concludere mi sembra particolarmente opportuno citare i versi di Baudelaire utilizzati da Ferré. Sono quelli della poesia «Le Léthé (Il Lete)», compresa nella raccolta «Les épaves (I relitti)». Che suonano fra l’altro: «Je veux dormir! dormir plutôt que vivre! / Dans un sommeil aussi doux que la mort (Io voglio dormire! dormire piuttosto che vivere! / In un sonno dolce come la morte)». Il poeta, poi, si definisce «martyr docile, innocent condamné (martire docile, innocente condannato)». E non siamo allo «spleen» (nella migliore delle ipotesi) o al sentimento d’impotenza (nella realtà dei fatti) che ci attanagliano oggi?

                                                                                                                                        Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 20/8/2021)

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