NAPOLI – Sarah Kane, lo sappiamo, morì suicida nel 1999, a ventott’anni. Ed era, dunque, una che faceva sul serio: per lei la vita e la scrittura coincidevano (o, più esattamente, si confondevano), sicché quel suicidio non fu che la logica conseguenza, quasi l’estensione, di una pratica drammaturgica spinta all’estremo, sia sul piano stilistico e lessicale che sul versante dei contenuti.
In particolare, possiamo dire che quel suicidio costituisce il vero e proprio punto fermo conclusivo di «4:48 psychosis», non a caso l’ultimo testo della Kane. È in scena ancora oggi e domani all’Elicantropo, per la regia di Valentina Calvani e l’interpretazione di Elena Arvigo. E la sua analisi deve necessariamente partire dal titolo, che allude all’ora più propizia, secondo le statistiche, per compiere l’atto senza ritorno. Infatti, «4:48 psychosis» è un testo che si sviluppa e si consuma sul confine tra l’accettazione e/o l’affermazione e il rifiuto e/o la negazione di sé. Siamo, per l’appunto, alla compresenza dell’ordinarietà (le statistiche) e dell’anarchia (la rottura dell’equilibrio). E di qui, fra l’altro, l’alternarsi nel testo medesimo della prosa e dei versi, ovvero di un realismo maniacale (vedi l’elenco puntiglioso dei farmaci che prende Sarah, dalla Sertralina allo Zopiclone, dal Melleril alla Lofepramina e al Citalopram) e di un delirio totalizzante (che, cioè, può evocare indifferentemente, accanto alla figura concreta e presente del medico, i fantasmi di un amante e di Dio).
Assistiamo, perciò, alla lotta terribile ingaggiata dai pensieri per farsi significanti e, quindi, parole. «Come posso ancora parlare?», suona quella che è, oltre ogni dubbio, la battuta-chiave. E a sottolineare i fallimenti continui di una simile lotta arriva lo stillicidio crudelissimo, interminabile, delle didascalie «Silenzio», «Un lungo silenzio», «Un lunghissimo silenzio».
Tuttavia, accade a Sarah Kane ciò che già era accaduto a Leopardi: di riuscire a giustificare la vita proprio perché le nega uno scopo. E può giungere, così, all’alto ossimoro conclusivo che dichiara: «Non ho nessuna voglia di morire / nessun suicida ne ha mai avuta»; mentre le ultime parole del testo – «per favore aprite le tende» – s’addormentano in una fraterna preghiera.
Insomma, «4:48 psychosis» mi riporta ancora una volta alla mente la lucida considerazione di Cendrars che spesso cito: «Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo, e continuare ad amarlo». Ed è, questa, una considerazione che possiamo assumere anche come epigrafe dell’allestimento in scena all’Elicantropo.
Per scelta comune della Calvani e della Arvigo, lo spazio scenico è interamente disseminato di frammenti di specchio. E si poteva rendere meglio il fatto che, per Sarah Kane, era impossibile riconoscersi?
Esemplare, in proposito, la sequenza iniziale in cui l’interprete mette mano a un solitario sbattendo sulle carte, a fermarle, alcuni di quei frammenti. Così come risalta il particolare che l’unico specchio intero è quello, montato in alto sulla parete di fondo, che riflette gli spettatori: giacché, s’intende, il testo in questione e la tragica vicenda personale a cui fece da prologo costituiscono un’implacabile chiamata di correo nei confronti del prossimo.
Ma, poi, tutto questo si riassume e si esalta nella prova intensissima di Elena Arvigo: la quale adotta, giustamente, una recitazione spezzata, che non s’acquieta mai in un’espressività di tipo narrativo e procede, invece, per sincopi, accelerazioni, cadute e abbandoni, in una sorta di acuminato rap del dolore. A un certo punto, la Arvigo cancella addirittura la sua stessa presenza di attrice, uscendo dallo spettacolo e allontanandosi nel foyer.
Il fatto è che Elena Arvigo non si limita a rientrare, sul piano tecnico, fra le migliori attrici italiane in circolazione. Possiede una sensibilità rara, voglio dire una sensibilità prensile: nel senso che lei sente il testo non solo con il cervello, ma anche con tutto il resto del corpo, appropriandoselo con un trasporto sofferente e gioioso insieme. E gli si concede, dunque, con la stessa naturalezza del respiro.
Enrico Fiore
Grazie, conserverò questa recensione tra le più care. Grazie.
Elena Arvigo
Sono io che ringrazio Lei, cara Elena. Ormai sono sempre più rare le occasioni di vedere spettacoli come il Suo.
A presto, spero.
Enrico Fiore