Seduti accanto a Ombretta
sulla panchina della coscienza

Milvia Marigliano nei panni di Ombretta Calco

Milvia Marigliano nei panni di Ombretta Calco

NAPOLI – Peppino Mazzotta – regista dell’allestimento di «Ombretta Calco», l’atto unico di Sergio Pierattini in scena ancora oggi al Nuovo – comincia le sue note ponendosi (e ponendo agli spettatori) una serie d’interrogativi: «Chi è Ombretta Calco? Perché si è seduta su una panchina in una giornata torrida di luglio, a pochi passi dal portone di casa sua? Perché deve ripercorrere gli eventi sensibili della sua vita scavando ossessivamente nei ricordi? E perché deve ingaggiare, sotto il sole cocente, un duello con se stessa come se fosse una resa dei conti?». E così conclude: «Alla fine del viaggio, come premio per questa ricostruzione meticolosa, buffa e straziante, c’è la risposta o la felicità. Una felicità non eclatante. Una felicità tragica, semplice, minima, discreta e necessaria».
Ebbene, aggiungo subito che raramente mi sono imbattuto in note di regia che, come queste, individuassero e illustrassero tanto acutamente e precisamente le ragioni profonde di un testo. Giacché, per cominciare, gl’interrogativi citati significano che il monologo di Pierattini consiste (ecco il suo non comune pregio) in una strenua e interminabile metafora.
Ombretta Calco è ciascuno di noi. La panchina su cui si siede a pochi passi dal portone di casa sua è il ricorrente soprassalto della coscienza che ci coglie ad intervalli più o meno regolari. Lo scavo ossessivo nei ricordi è la conseguenza ineludibile del fatto che noi siamo ciò che siamo stati, ovvero che nelle vene del nostro presente scorre insostituibile e inarrestabile il sangue del nostro passato. Il sole cocente è la sofferenza (o, almeno, il disagio) che provocano quei soprassalti della coscienza. E infine, la resa dei conti è la vita stessa: che puntualmente, in sede di bilancio, non regala che la compresenza d’ipotesi (vale più la risposta, ossia l’approdo del pensiero, o la felicità, ossia l’isola del sentimento?) e ossimori (una felicità tragica, discreta e necessaria).
Non a caso, poiché di corsi e ricorsi si tratta, la panchina su cui siede adesso Ombretta è esattamente la stessa su cui si era seduta anni prima. Così come non è un caso che lei venga colta da un ictus nello stesso punto del cortile in cui era stata colta da un ictus la madre. E così come non è un caso, soprattutto, che Ombretta ricordi all’inizio e torni a ricordare al termine uno spettacolo visto al Piccolo, di cui non le sovvengono il titolo né chiaramente la trama ma che era – specifico io – «La vita è sogno» di Calderón de la Barca: che accoglie come tema decisivo la ricerca, spesso disperata, della propria identità autentica di fronte alla frantumazione (o, peggio, alla dissociazione) dell’Io.
Ebbene, rispetto a tutto questo l’allestimento non poteva risultare più fedele e illuminante. Nell’impianto scenografico di Roberto Crea è tutto sospeso: la panchina su cui siede Ombretta a mezz’aria, ancora più in alto un albero sradicato dal terreno. L’unico elemento «normale» consiste nel cinguettìo degli uccelli, perché, si capisce, rappresenta la voce di un’innocenza naturale, libera dai fantasmi che ci portiamo nell’anima e dalle pastoie che ci stringono nei rapporti con gli altri. Ed è proprio con un simile quadro che coincide la straordinaria prova d’attrice di Milvia Marigliano.
Parlo di una prova straordinaria perché improntata a un realismo robusto (ah, quella plateale cadenza milanese!) che, però, imbocca sistematicamente una via di fuga verso l’inespresso, collocandosi – per l’appunto in sospeso – fra una dimessa quotidianità e un altrettanto umile delirio. Uno spettacolo, una regia e un’attrice da vedere, senz’alcun dubbio.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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