L’avvenire incerto del teatro
e il pastore Tomas Ericsson

Gunnar Björnstrand in «Luci d'inverno»

Gunnar Björnstrand in «Luci d’inverno»

Non è un mistero che l’avvenire del teatro (così come quello di tante altre attività, dal giornalismo all’insegnamento universitario) a me sembri piuttosto incerto. E a tenermi lontano da qualsiasi ottimismo e illusione arrivano sempre nuovi e sempre più allarmanti segnali. Oggi mi soffermo su quanto è accaduto al Delle Palme in occasione della replica di «Non è vero… ma ci credo!» data giovedì scorso.
Si trattava di una replica pomeridiana, e dunque affollata (ma ormai capita sempre più spesso anche alle repliche serali) da spettatori anziani e in parecchi casi molto anziani. Si sono divertiti, stavano lì a dimostrarlo le risate che di frequente punteggiavano la rappresentazione. Però, al termine, un solo applauso, frettoloso e striminzito, e via di corsa.
Inutilmente Sebastiano Lo Monaco, protagonista dello spettacolo, faceva capolino dalla quinta di sinistra, speranzoso in qualche altra «chiamata». Finché, non potendone più, è rientrato in palcoscenico, ha chiamato intorno a sé i compagni e, rivolto con evidente risentimento agli spettatori che s’allontanavano indifferenti, ha detto: «Che cos’è, siete stanchi di ridere? Ma non ve l’ha detto nessuno che al termine di uno spettacolo è buona norma applaudire, almeno per rispetto di chi qua sopra ha lavorato?».
Allora tre o quattro di quegli anziani in fuga hanno rallentato il passo e si sono fermati a biascicare una sorta di non meno frettoloso «mea culpa», a base di «ha ragione, siamo un pubblico maleducato» e «ha ragione, dobbiamo imparare a stare a teatro come si deve». Ma io sono sicuro che, appena usciti dal Delle Palme, si son bellamente dimenticati dell’accaduto, pronti a comportarsi esattamente allo stesso modo in ogni prossima occasione.

Roberto Herlitzka

Roberto Herlitzka

A peggiorare la situazione, poi, ci si mettono proprio i teatranti, i quali, molto spesso, si fanno del male da soli. Il Bellini, per esempio, fa concorrenza a sé stesso. Martedì prossimo, 11 novembre, proporrà – insieme, e sempre con inizio alle 21 – nella sala grande «Il mercante di Venezia» con Silvio Orlando e in quella piccola «Una giovinezza enormemente giovane» con Roberto Herlitzka. Da un lato Shakespeare e dall’altro Pasolini. E in entrambi i casi un interprete di valore. Che cosa dovrà scegliere il povero spettatore che decidesse di fare un salto in via Conte di Ruvo? Il meno che si possa dire, nella circostanza, è che i due spettacoli si ostacoleranno a vicenda. Mentre, è facilissimo prevederlo, sarà letteralmente schiacciato da quello di Orlando «Il mercante di Venezia» che Laura Angiulli – non so se per mancanza di strategia o per abbondanza di presunzione – metterà in scena negli stessi giorni alla Galleria Toledo.

Silvio Orlando

Silvio Orlando

Qualcuno, adesso, mi chiederà, aggiungendosi ai molti altri che l’hanno già fatto e a me stesso che lo faccio ogni mattina guardandomi nello specchio: «Ma perché continui a scrivere recensioni? A chi credi di rivolgerti? E chi pensi che capisca e apprezzi le tue elucubrazioni?».
Bene, io rispondo che mi sento simile al pastore Tomas Ericsson, il personaggio protagonista del gran film di Bergman «Luci d’inverno». Il pastore Tomas Ericsson ha perso la fede, ma continua a interrogarsi sul silenzio di Dio. E quando alla fine di una delle sue giornate stanche si ritroverà in una chiesa sperduta, una chiesa dove i fedeli non ci sono più, di nuovo pronuncerà, anche di fronte a quei banchi vuoti, le alte ed eterne parole del rito: «Santo, santo, santo il Signore Dio degli eserciti. Benedetto colui che viene nel nome del Signore».
In fondo, è lo stesso atteggiamento che hanno il Vladimiro e l’Estragone di Beckett. E non a caso ho posto in epigrafe a questo sito una battuta di «Aspettando Godot».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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