Adesso Ariel fa pure il siparista

Maria Irene Minelli e Marco Sgrosso in un momento de «La tempesta», in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri
(le foto che illustrano questo articolo sono di Alessandro Serra)

TORINO – «Ariel giace sotto un telo nero, come un cadavere ricoperto di fango in fondo al mare. Si alza il telo, che si trasforma in un mare. Ariel sott’acqua muove il mare in tempesta. […] Al termine della tempesta, con uno scroscio d’acqua il telo cade addosso ad Ariel. Ariel è sepolto dal telo, ne viene fuori a fatica, esce, rientra con una corda, sale sulla pedana-palcoscenico, inizia a tirare la corda. Il telo si alza come un sipario nero».
Sono, citate quasi integralmente, le prime due didascalie de «La tempesta», che lo Stabile di Torino ha presentato alle Fonderie Limone di Moncalieri nella traduzione, nell’adattamento e per la regia di Alessandro Serra. E se le accostiamo ad altrettante affermazioni contenute nelle note dello stesso Serra («Il sovrannaturale arriva quando Prospero vi rinuncia» e «”La tempesta” è un inno al teatro fatto con il teatro»), abbiamo un prologo quanto mai esaustivo ai contenuti e alle forme di questo spettacolo. Ma, prima di scendere nei particolari della messinscena, ripropongo, come faccio di fronte ad ogni nuovo allestimento di un testo classico, l’analisi di quel testo che sono andato sviluppando nel corso degli anni, vedendone via via differenti riletture.
M’è sempre parso che la chiave (o, almeno, una delle chiavi) per afferrare il senso profondo de «La tempesta» possa trovarsi nei seguenti due passi di «Andrea o I ricongiunti», il grande romanzo incompiuto di Hofmannsthal.
Questo il primo: «In quel che c’è di più singolo, particolare, si compie il destino, in quel che c’è di più particolare risiede la forza». E questo il secondo: «La vera poesia è l’arcanum che ci congiunge alla vita, che dalla vita ci separa. Il separare – soltanto se separiamo noi viviamo veramente – se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile».
Infatti, Prospero aveva voluto unire il Tutto: il cielo e la terra, l’anima e il corpo, l’arcano e il quotidiano. Ma riesce a ritrovare la propria dimensione umana, e quindi a vivere davvero, solo quando spezza la sua bacchetta magica e dà l’addio agli spiriti e ai folletti: solo quando, cioè, tocca l’estrema saggezza, ch’è quella, giusto, di separare l’umano dal divino.
Dunque, quest’opera ultima del Bardo – connotata dall’allegoria e dalla fuga in un mondo superumano, e in cui la poesia, come acutamente osservò Gabriele Baldini, nasce unicamente dalla «condizione di disperato aggrappamento a una facoltà sul punto di spegnersi» – è un rito sapienziale. E il suo sacerdote, Prospero, raggiunge la verità solo quando si vede costretto, per l’appunto, a separare la magia (ovvero l’illusione) dalla vita (ovvero la realtà). Si tratta dell’unica «separazione» che possa trasformare l’inevitabile momento del distacco dall’esistenza fisica e dall’arte in una nuova e più perfetta simbiosi fra il pensiero e la sua «estensione» nel tempo.
«La tempesta», insomma, si riferisce alla separazione fra la vita e la morte, o meglio fra una certa vita e un’altra a venire, forse fondata sulla morale, forse sulla religione. Per questo, ad esempio, nell’allestimento firmato nell’86 da Leo de Berardinis la «trama» di quella commedia appariva riferita a qualcosa di già avvenuto: tanto che nella sequenza iniziale, tagliato via il celeberrimo prologo in mare, l’equipaggio della nave naufragata sugli scogli dell’isola di Prospero avanzava dal fondo del palcoscenico verso la ribalta come se si trattasse di un drappello di «zombies», per giunta con la testa e le mani infagottate in bende da lebbrosi.

Chiara Michelini nella sequenza iniziale dello spettacolo, diretto da Alessandro Serra

Fra l’altro, il ricordo dello spettacolo di de Berardinis s’impone anche perché ritroviamo in quello di Serra, nel ruolo di Prospero, lo stesso Marco Sgrosso che figurava trentasei anni fa tra gl’interpreti guidati da Leo. E vengo, adesso, a spiegare quanto ho detto all’inizio.
La prima delle due affermazioni di Serra che ho citato («Il sovrannaturale arriva quando Prospero vi rinuncia») rimanda proprio alla «separazione» di cui parla Hofmannsthal e che il testo di Shakespeare realizza. E il fatto che Ariel qui compaia già nella prima scena, durante la tempesta, mentre il Bardo lo fa comparire solo nella seconda, quando la tempesta è finita, rimanda alla lettura di de Berardinis che ho rievocato, secondo la quale, ripeto, la «trama» della commedia si riferisce a qualcosa di già avvenuto.
La seconda delle affermazioni di Serra in questione («”La tempesta” è un inno al teatro fatto con il teatro») invera, poi, la considerazione che giusto a proposito del teatro ho spessissimo messo in campo: la sua grazia e la sua maledizione consistono nella circostanza ch’è costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive. Vedi, appunto, quell’Ariel che si presenta «come un cadavere ricoperto di fango in fondo al mare» e, quando viene fuori dal telo/sudario che lo ricopre, quando, cioè, prende a vivere, lo fa solo nei termini di una recita, trasformando il telo/sudario in un sipario.
Molto intelligente, non c’è che dire. E ancora, a proposito della prima delle due affermazioni di Serra che prendo in considerazione («Il sovrannaturale arriva quando Prospero vi rinuncia»), rilevo che mi riporta in mente l’acuta osservazione di Cendrars che non meno spesso mi son trovato a citare: «Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo e continuare ad amarlo».
Non v’è dubbio, infatti, che Prospero sia disperato (a cominciare dal tradimento che ha subìto da parte del fratello Antonio), ma è altrettanto indubbio che quella disperazione nasce proprio dall’amore che il deposto Duca di Milano nutriva e, in fondo, nutre tuttora verso il consanguineo che l’ha costretto all’esilio.
S’impone, inoltre, la battuta di Stefano: «Accummencio a tene’ penziere ‘e sanghe». Rimanda, naturalmente, a «Macbeth». E non è chi non ricordi il «Macbettu» di Serra, connotato da una terragna fisicità: infatti, tanto per fare un solo esempio riguardo, appunto, alla fisicità che connota anche quest’allestimento de «La tempesta», l’ingresso in scena di Gonzalo, Sebastiano, Alonso e Antonio, in fila l’uno dietro l’altro, avviene in un imperversare di zanzare, scandito dall’ossessivo ricorrere della didascalia: «Caldo. Afa. Arsura» a commento di pantomime da Commedia dell’Arte tramate di schiaffi e colpi di spada contro quegl’insetti.

Ancora una scena de «La tempesta», con, da sinistra, Vincenzo Del Prete e Jared McNeill

L’esempio, si capisce, serve pure a dimostrare che la regia di Serra adotta un efficace abbassamento di tono in funzione straniante. E nel senso dello straniamento si muove, di pari passo, la teatralità dichiarata di certe sequenze, come la danza dei costumi che lo stesso Ariel fa scendere dal soffitto o, ancora, quella dei fantocci che vestono da sposi Ferdinando e Miranda. Mentre l’abbassamento di tono raggiunge il clou con Stefano e Trinculo che cantano a Calibano «Cornutone» degli Squallor: «Miss, simmo jute a fernì int’ ‘o cesso, / e mò ca rimango i’ sulo, / te manno a fanculo. / O mia cara miss, e puortece pure a isso, / ca tanto è ‘nu curnutone / e manco pe’ nu milione i’ nun te chiavasse cchiù»…
Per quanto concerne infine lo spettacolo in sé, rilevo che non sempre risulta all’altezza delle sue premesse concettuali. Le cose migliori le mostra sul piano figurativo, per esempio attraverso le luci (sono anch’esse di Alessandro Serra, così come le scene, i suoni e i costumi) che a tratti calano la rappresentazione in un’atmosfera a metà fra Caravaggio e il Böcklin de «L’isola dei morti».
Per il resto, ci si adagia, sostanzialmente, in una semplice narrazione del testo shakespeariano. E faccio un altro esempio nel merito.
Calibano compare recando un albero attaccato sulla schiena. È chiaramente un’allusione all’albero dentro cui la madre di Calibano, la strega Sicorace, imprigionò Ariel. Ed è una gran bella invenzione, che per giunta ricalca quella di Nekrosius per il suo allestimento di «Macbeth»: l’invenzione di un Macbeth e di un Banquo che comparivano portandosi appeso sulla schiena uno zainetto da cui fuoriusciva un alberello, altrettanto chiara allusione alla foresta di Birnam che alla fine «muoverà» contro Macbeth.
Si tratta, ripeto, di ribadire che tutto è già avvenuto. Ma in seguito l’albero sulla schiena di Calibano non compare più, sicché il «mostro», da simbolo di un tempo fermo (giacché la trama si svolge per intero nella mente di Prospero), finisce ad essere, per l’appunto, un puro elemento narrativo.
Non resta, ora, che accennare alla prova fornita dagl’interpreti. Spicca di gran lunga Marco Sgrosso, che fa di Prospero un assai convincente mélange di durezza e fragilità. Fra gli altri segnalerei Chiara Michelini (Ariel), Vincenzo Del Prete (Stefano), Massimiliano Poli (Trinculo) e Jared McNeill (Calibano).

Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *