Le «relazioni pericolose» fra la Parola e il Linguaggio

Monica Piseddu e Edoardo Ribatto in un momento de «Le relazioni pericolose», in scena al LAC
(le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

LUGANO – Ho assistito a una reincarnazione: mentre vedevo l’adattamento de «Le relazioni pericolose» presentato in «prima» assoluta da Lugano Arte e Cultura. E mi spiego, a partire dai minimi dati di cronaca circa il celebre testo di Choderlos de Laclos.
Si tratta, com’è noto, del romanzo epistolare pubblicato a Parigi nel 1782 e centrato sulle manovre della marchesa Merteuil e del visconte Valmont, suo ex amante, per condurre alla perdizione la giovane e inesperta Cécile Volanges, appena uscita dal convento per sposare il conte Gercourt, del quale (è un altro suo ex amante) la contessa vuole vendicarsi.
Ebbene, fin verso la metà del XIX secolo «Le relazioni pericolose» venne considerato, per lo più, solo come un libro scandaloso: tanto è vero che Saint-Beuve, pur nominandolo varie volte, su Laclos non si soffermò, e Baudelaire lasciò appena degli appunti in merito allo studio che aveva progettato di condurre su quel romanzo. Fu a far data dal 1891, cioè dall’intervento di Bourget, che si fece strada una più articolata comprensione de «Le relazioni pericolose», al di là del pregiudizio moralistico che sin lì l’aveva penalizzato.
Ciò premesso, eccomi, dunque, alla reincarnazione di cui sopra. Bourget si è reincarnato in Carmelo Rifici, regista dello spettacolo e autore della riscrittura de «Le relazioni pericolose» insieme con Livia Rossi, già sua allieva alla scuola di teatro «Luca Ronconi» del Piccolo di Milano: perché, al pari di Bourget, Rifici ha preso il romanzo di Laclos molto sul serio, non solo affrancandolo da tutte le interpretazioni superficiali e di comodo, ma anche e specialmente spingendolo fuori da se stesso, ovvero dall’aura settecentesca che lo connota e, in particolare, dallo scambio di lettere (175) che ne costituisce il plot.
Del testo originario sono rimasti qui la struttura epistolare, i nomi dei mittenti e dei destinatari delle lettere e una parte della trama. Ma, poi, questi elementi sono stati mescolati con le citazioni e le suggestioni relative a tutta una serie di altri autori ed altri testi, narrativi, poetici o saggistici: si va, tanto per fare qualche esempio, da «Il teatro e la peste» di Artaud ai versi di Keats, da «Il castello interiore» di Teresa d’Avila a «L’anticristo» di Nietzsche, da «Massa e potere» di Canetti a «La persona e il sacro» di Simone Weil.
In una sua nota, Livia Rossi dice che l’obiettivo è stato quello di fare in modo che «pensieri formulati in epoche tra loro distanti, da penne e sensibilità antitetiche, potessero infine risultare scritti da una stessa mano». E Rifici, nelle note di regia, aggiunge per proprio conto di aver voluto affrontare «un viaggio nel doloroso campo di battaglia» che vede contrapposti la Parola e il Linguaggio.
Direi che, sostanzialmente, l’obiettivo indicato dalla Rossi appare centrato e il viaggio intrapreso da Rifici approda a una meta che, molto intelligentemente, si rivela essere quella del sottrarsi al lenocinio di ogni presunta certezza legata al significato. Non a caso, spicca fra gli autori ai quali ci si è riferiti Hugo von Hofmannsthal. Qui, di Hofmannsthal, si prende in considerazione la «Lettera a Lord Chandos». Ma, a conti fatti, la forma e i contenuti dello spettacolo di cui parliamo mi fanno pensare soprattutto all’Hofmannsthal che il 18 giugno del 1895 scrisse al guardiamarina E.K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni», aggiungendo: «Perciò, vedi, io penso questo: non vi è nulla di scritto a cui si possa credere. Tutti i grandi libri… sono simili mondi di sogno».
D’altronde, forse che nella «Lettera a Lord Chandos», uno dei testi-chiave del Novecento, Hofmannsthal non immagina che il Lord del titolo comunichi a Francesco Bacone «la propria totale e definitiva rinuncia all’attività letteraria»? In breve, l’approdo significante a cui perviene il viaggio di Rifici è la sostituzione del Settecento dei Lumi e, appunto, delle schermaglie via lettera (gli uni e le altre indici, sia pure a livelli diversi, di un tentativo di razionalizzare il mondo e la nostra presenza nel mondo) con l’epoca del tramonto della civiltà mitteleuropea incarnato dalla «finis Austriae».
In altri termini, Rifici rilegge Laclos come se fosse un erede di Cervantes e i personaggi de «Le relazioni pericolose» come se fossero epigoni di quel Don Chisciotte che era (per dirla con Foucault) «scrittura errante fra le cose», che, cioè, realizzava la frattura tra le parole e la realtà che costituisce la crisi decisiva dell’età moderna.

Livia Rossi in un altro momento dello spettacolo, diretto da Carmelo Rifici

Di qui il tentativo costante dei personaggi in campo di ridurre la parola, ormai destituita di ogni plausibilità e credibilità, all’unica certezza possibile, quella rappresentata dalla fisicità. Vedi quel che racconta Cécile alla Merteuil: «Dopo pranzo un giovane si è messo a declamare le sue poesie. La sua voce, calda e tremula, si agitava nello spazio in un modo che non so bene descrivere. Mi sembrava di percepire, al di là della creatura che emanava quei suoni, una sorta di manifestazione, come se le parole, ad una ad una, trafiggessero il mio corpo». E vedi, per fare un altro esempio, quanto dichiara Valmont alla stessa Merteuil: «Scopro quindi oggi, per la prima volta, che le parole rubate alla letteratura possono risorgere in noi come nuove e personali, quando il corpo ne viene realmente trapassato».
È questa la «guerra» su cui insiste Rifici nelle sue note di regia. E l’intento manifestato dai personaggi che abbiamo di fronte è quello di determinare la vittoria del Linguaggio sulla Parola assumendo il primo come il «corpo verbale» teorizzato da Sartre. A tanto, in fondo, si richiama Danceny quando, rivolgendosi insieme a Madame de Tourvel e a Madame de Merteuil, osserva: «[…] la parola oggi si rivela in tutta la sua inconsistenza. E mi pare folle che noi uomini, sin dalla sua comparsa, ci siamo affidati a lei abiurando le leggi di natura. Mi sento come un cercatore di funghi che a sua insaputa fino ad oggi non ne ha raccolti che di ammuffiti o velenosi. Dovrebbe esistere una parola per ogni sguardo, gesto, odore, suono, percezione, sentimento, ossessione, verità, confessione, bugia, ma non esiste, non ve ne sono così tante a disposizione. Sono vortici che turbinano senza sosta, le parole, oltre le quali si approda nel vuoto».
Non ci resta, quindi, che abbandonare le infinite lusinghe delle parole, delle infinite parole che oggi imperversano, e tornare ad essere, per l’appunto, linguaggio. La salvezza può consistere solo nella coincidenza del significante e del significato, del pensiero e della vita: è questo il senso profondo dello spettacolo di Rifici. E credo che un altro dei suoi meriti, forse il maggiore, sia il fatto che rimanda, pur senza citarlo, a «Quartett» di Müller: anch’esso una riscrittura de «Le relazioni pericolose», alla luce della dichiarazione di poetica dell’autore («Il mio principale interesse nello scrivere per il teatro viene da un impulso alla distruzione») e di un affondo violentissimo contro la forma e, giusto, le parole in quanto strumenti per nascondere o travisare la realtà.
Non a caso le parole-chiave di quel testo sono «maschera», «trucco» e «recitazione». E il cerchio si chiude perfettamente con la citazione della Nina di Cechov che pronuncia la famosa battuta: «Io sono un gabbiano». I personaggi di Cechov, lo sappiamo, spasimano in un limbo sospeso fra la nostalgia di un passato che non può tornare e il sogno di un futuro in cui, peraltro, non si crede nemmeno più. Una situazione esattamente uguale a quella dei personaggi de «Le relazioni pericolose»: che hanno fra loro rapporti soltanto virtuali, fondati sulle lettere che si scambiano, e quindi – per ripetere ancora una volta l’acuta osservazione di Peter Szondi – languono in un presente caratterizzato dalla «rinuncia alla possibilità d’incontrarsi» e «alla felicità in un vero incontro».

Da sinistra, Elena Ghiaurov (la marchesa Merteuil) e ancora Monica Piseddu (Madame de Tourvel)

Infine, la regia di Rifici illustra tutto questo con precisione millimetrica. Viene messa al bando, insieme col naturalismo, persino l’ipotesi di una rappresentazione. E il tono generale dello spettacolo è quello della staticità, come appare giusto che sia trattandosi di lettere, ovvero di scritture che si esauriscono in sé, risultando nient’altro che un simulacro dei rapporti interpersonali a cui alludono.
I personaggi, di conseguenza, se ne stanno quasi sempre isolati, non più che monadi prigioniere della propria identità scritta. E gli empiti di risentimento, così come le sequenze erotiche, sono dichiaratamente esibiti, costituendo in tal modo classici esempi di sottolineatura per contrasto. Del resto, ugualmente esibiti, davanti al pubblico collocato sul palcoscenico, sono gli strumenti tecnici necessari allo spettacolo: un enorme registratore, proiettori per le diapositive, microfoni di vario tipo per consentire agli attori gli effetti sonori relativi alla resa dei diversi contenuti testuali, un giradischi. Mentre gli assalti di scherma li vediamo, sì, ma son tali da ribadire che qui i veri fioretti sono le parole, così come le maschere indossate dai duellanti son tali da ribadire che qui le vere maschere sono gli artifici a cui quelle parole vengono piegate.
Il tutto trova una sintesi nella più eclatante delle invenzioni registiche: quella in cui Cécile viene sollevata dal suolo dopo che è entrata nella crinolina precedentemente calata dall’alto. Rifici, con quest’immagine, ci dice come meglio non si sarebbe potuto che i personaggi de «Le confessioni pericolose» non hanno altra possibiltà di «ascesi» al di fuori del consegnarsi alla forma per essi preordinata.
Chiudo annotando che fra gl’interpreti spiccano, ovviamente, i più esperti (Elena Ghiaurov/Marchesa di Merteuil, Monica Piseddu/Madame de Tourvel, Edoardo Ribatto/Visconte di Valmont) rispetto ai più giovani e ancora acerbi, Flavio Capuzzo Dolcetta (Danceny) e la stessa Livia Rossi (Cécile de Volanges). Ma parliamo di un dislivello che non influisce in misura eccessiva, poiché questo è uno dei casi in cui conta ciò che gli attori dicono, non come lo dicono.

Enrico Fiore

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