Quel Ricco Ebreo che toglie il sonno ai tedeschi

Da sinistra, Edoardo Sorgente, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Marco Cacciola e Wener Waas in un momento de «I rifiuti, la città e la morte» di Fassbinder, dato alla Biennale Teatro (le foto che illustrano questo articolo sono di Donato Aquaro)

Da sinistra, Edoardo Sorgente, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Marco Cacciola e Werner Waas
in un momento de «I rifiuti, la città e la morte» di Fassbinder, dato alla Biennale Teatro
(le foto che illustrano questo articolo sono di Donato Aquaro)

VENEZIA – Conosciamo la vicenda travagliata de «I rifiuti, la città e la morte». Con quel melodramma in due parti e undici scene, scritto nel 1975, Rainer Werner Fassbinder aveva in animo di chiudere la sua attività di direttore al Theater am Turm di Francoforte. Ma la pièce poté essere rappresentata per la prima volta in Germania solo trentaquattro anni dopo. E il motivo di una così lunga e pertinace messa al bando sta nell’accusa di antisemitismo rivolta all’autore.
Tanto in ossequio alla superficie della trama. Che vede in campo, come personaggi principali, A., chiamato il Ricco Ebreo, un potente speculatore edilizio, e Roma B., la più magra e affamata prostituta di Francoforte: A. la prende sotto la sua protezione e la fa padrona di appartamenti e addirittura d’interi palazzi; e quando lei – figlia dei Müller, di una madre che, paralizzata su una carrozzella, legge sempre Lenin e Marx e di un padre che, nazista non pentito, sbarca il lunario travestendosi e cantando canzoni di Zarah Leander – manifesta il desiderio di morire (perché, nel frattempo, è venuta in odio alle colleghe e al marito Franz, che la sfruttava), l’accontenta senza un attimo d’esitazione, strangolandola con la sua cravatta e gettando la colpa su Franz.
Quindi, non v’è dubbio che Fassbinder ritragga A. come l’autentica quintessenza della logica e del cinismo capitalistici. Il personaggio si presenta così: «In questa città io compro vecchie case, le faccio demolire, ne costruisco di nuove e le vendo. Il Comune mi protegge, lo deve fare. E poi sono ebreo. Il capo della polizia è mio amico, per quel che significa amico, il sindaco gradisce avermi tra i suoi ospiti, sui consiglieri comunali posso contare». E a scanso di equivoci aggiunge: «Di scrupoli sui drammi dei poveracci, dei bambini, dei vecchi, dei malati, non ne devo avere. Non me ne deve importare nulla. E certe urla rabbiose non le ascolto nemmeno».
Ma proprio un simile ritratto tagliato con l’accetta avrebbe dovuto indurre i censori alla prudenza. Per esempio, quei censori avrebbero dovuto porre attenzione all’accostamento che A., nel presentarsi, fa tra il dovere di proteggerlo da parte del Comune e la circostanza che lui è ebreo. Fassbinder non avrebbe potuto dir meglio, intendo con chiarezza maggiore, a chi va attribuita la vera responsabilità dell’affarismo spietato a cui si allude.
Rispondendo all’accusa di antisemitismo, Fassbinder disse: «Al contrario, è antisemita parlare degli ebrei e di altre minoranze esclusivamente in termini positivi, solo perché si tratta di minoranze». Viene in mente il modo edulcorato, e perciò esso sì razzista, in cui nel film «Soldato Blu» di Ralph Nelson si parlava dei nativi nordamericani. E insomma, con «I rifiuti, la città e la morte» Fassbinder toccava – clamorosamente e provocatoriamente – quel nervo scoperto che nella Germania del secondo dopoguerra era incarnato per l’appunto dagli ebrei, fino a costituire un onnivoro tabù.
Ripeto, il Comune di Francoforte «deve proteggere» A., e consentirgli di svolgere in pace tutti i suoi traffici, proprio perché è ebreo. Lo spiega in maniera inappuntabile ed eclatante un altro dei personaggi significativi, Hans de Felice: «La colpa è dell’ebreo, perché lui ci rende colpevoli per il solo fatto di essere tra noi. Se fosse rimasto là da dove è venuto, o se gli avessero dato il gas, io oggi dormirei meglio».

Camilla Semino Favro in un altro momento dello spettacolo, diretto da Giovanni Ortoleva

Camilla Semino Favro in un altro momento dello spettacolo, diretto da Giovanni Ortoleva

Tutto questo, infine, si riflette – sul piano strettamente drammaturgico – nel tratto decisivo che connota tutto il teatro di Fassbinder: lo scarto fra la schematicità del reale (l’«esterno», ovvero la storia) e la ridondanza barocca di cui quel reale viene rivestito dalla creazione artistica (l’«interno», ovvero la coscienza e il sentimento individuali). Ne derivano la compresenza e la fusione della critica sociale e dell’autobiografia. E di qui il fitto intreccio di simboli che si riscontra ne «I rifiuti, la città e la morte».
Basterebbe pensare, anche per quanto riguarda il sarcasmo dispensato a piene mani dall’autore bavarese, alla contrapposizione stabilita, nel solco dei nomi che vengono loro attribuiti, fra il citato Hans de Felice e Oscar de Dolore. E faccio un altro esempio a proposito dei risultati straordinari che arrivano quando, come nel caso appena citato, il simbolismo e il sarcasmo si presentano appaiati.
Il signor e la signora Müller sono, in tutta evidenza, i simboli delle due Germanie. E al signor Müller, che si è sprezzantemente riferito, per l’appunto, all’abitudine della moglie di leggere Lenin e Marx, il Ricco Ebreo risponde: «C’è stata anche una cultura peggiore, lei lo saprà».
Non è senza significato, peraltro, che questo scambio di battute venga collocato in posizione fortemente icastica, alla fine della prima parte. E dunque, tirando le somme, ce n’è più che abbastanza per giudicare estremamente interessante la riproposta de «I rifiuti, la città e la morte» nell’ambito del 48° Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia e diretto da Antonio Latella.
Non parlo, perciò, soltanto dell’attinenza del melodramma di Fassbinder col tema (la censura) assegnato quest’anno al Festival sotto il titolo drasticamente allusivo «Nascondi(no)». E aggiungo subito che Giovanni Ortoleva, il regista dell’allestimento in questione, ha moltiplicato l’interesse che suscita il testo di Fassbinder, innanzitutto compiendo un eccellente lavoro di adattamento circa la traduzione qui adottata, quella storica di Roberto Menin.
In breve, Ortoleva porta a termine un’operazione che da un lato attenua quel che di datato può riscontrarsi nella polemica di Fassbinder e, dall’altro, spinge quest’ultima verso un realismo collegato con l’attualità: ciò che implica, di volta in volta, il ricorso a cadenze giocose o l’adozione di toni più crudi. E faccio al riguardo due esempi che mi sembrano particolarmente indicativi.

Ancora una scena dello spettacolo, in cui compaiono, da sinistra, Nika Perrone e Andrea Delfino

Ancora una scena dello spettacolo, in cui compaiono, da sinistra, Nika Perrone e Andrea Delfino

Nella prima scena del testo originale, Achfeld, preceduto dalla didascalia: «Arriva Achfeld. Si mette al centro delle prostitute, canta», si esibisce in una filastrocca intinta nella fusione di doppi sensi e nonsense: «Sotto la cappa del mio camino / io ti scopo il tuo buchino / che suonava la chitarra / ora prendi questa sbarra». Nell’adattamento di Ortoleva, invece, Achfeld, preceduto dalla didascalia: «Arriva Achfeld. Si mette al centro delle prostitute e fa la conta», si esibisce in una filastrocca intinta in un tipico calcolo da magnaccia: «Ambarabaciccicoccò / oggi te mi scoperò / ti rigiro per tre ore / poi ti passo al tuo dottore». E sempre nella prima scena, l’insulto generico che Fassbinder mette in bocca a Roma B. («sporco cazzo di passaggio») diventa qui un ben preciso attacco razzistico («sporco cazzo immigrato»).
Allo stesso modo, nella terza scena taluni versi della «Canzone della città» intonata da Marie-Antoinette («andò a vendersi senza piacere», «i ragazzi non eran mancati», «tra le gambe era presa dal padre / lei rideva e rideva d’orgoglio») si trasformano, rispettivamente, nelle parafrasi seguenti: «si mise a battere senza piacere», «se l’è scopata un esercito intero» e «lei rideva d’orgoglio che al padre / piacesse sederla sul proprio pacco».
Un altro esempio calzante in tema di cadenze giocose e di abbassamento di tono ce lo offre, poi, il fatto che Müller intona, invece delle canzoni di Zarah Leander, «Non sono una signora» di Loredana Bertè ed «E dimmi che non vuoi morire» di Patty Pravo. E fanno il paio, simili invenzioni, con un allestimento che la regia di Ortoleva fonda, sostanzialmente, sulla sottolineatura del barocchismo fassbinderiano di cui sopra.
L’azione (l’impianto scenografico è di Marta Solari) si svolge su un praticabile che procede dal fondo verso la ribalta come una vera e propria passerella da sfilata di moda: e su questa si scatena dall’inizio alla fine un mélange che accumula, poniamo, il reiterato battere di tacchi sulle tavole caratteristico del flamenco, i tratti orientaleggianti di taluni dei costumi della stessa Solari, gli stilemi formali del Kabarett espressionistico e pantomime da musical.
Adeguata, nel complesso, la prova degl’interpreti: fra i quali segnalerei almeno Camilla Semino Favro (Roma B.), Marco Cacciola (Franz B.) e Andrea Delfino (il Piccolo Principe).
Dunque, in conclusione, Giovanni Ortoleva dimostra di aver compiuto significativi progressi rispetto all’alquanto approssimativo «Saul» presentato l’anno scorso. Ma questo vuol dire che un altro dei meriti conquistati dalla Biennale Teatro diretta da Latella sta nell’essersi posta come un laboratorio permanente, in cui i giovani in scena hanno avuto a mano a mano – e certo, anche sbagliando – l’opportunità di crescere, ovvero di precisare e rafforzare la propria fisionomia artistica. E con i tempi che corrono non è poco.

                                                                                                                                        Enrico Fiore

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