«Il giardino dei ciliegi» come esilio del teatro dal teatro

 

Ksenia Rappoport e Igor Chernevich in un momento de «Il giardino dei ciliegi» formato da Dodin (le foto dello spettacolo sono di Viktor Vassiliev)

Ksenia Rappoport e Igor Chernevich in un momento de «Il giardino dei ciliegi» firmato da Dodin
(le foto dello spettacolo sono di Viktor Vassiliev)

MILANO – La parola russa «malij» significa piccolo. E dunque con una forza particolare è risuonata simbolicamente ieri sera, quando al Piccolo di Milano, ora intitolato a Giorgio Strehler, il Malij Teatr di San Pietroburgo ha presentato – nell’ambito delle manifestazioni organizzate a vent’anni dalla scomparsa del grande regista triestino – l’edizione de «Il giardino dei ciliegi» firmata dal suo direttore Lev Dodin, il maestro che si colloca al fianco di Brook, Wilson, Ronconi e, appunto, Strehler, del quale fu amico.
Non meno simbolica e significativa è sembrata, perciò, la cerimonia che ha introdotto lo spettacolo: l’inaugurazione del nuovo impianto d’illuminazione dello Strehler, realizzato dallo Studio CastagnaRavelli e da iGuzzini Illuminazione in base all’idea di stendere un manto di luce a proteggere quest’impresa di pochi e di folli che si chiama Teatro. Ma, ciò detto, passo subito a «Il giardino dei ciliegi», partendo, come ho già fatto in altre occasioni, dalla fine, dall’ultima didascalia di quello che per suo conto è l’ultimo testo di Cechov: «Si sente un suono remoto dal cielo: il suono d’una corda di violino che si spezza, un suono triste, moribondo… Torna il silenzio, e si sente solo, lontana, la scure che s’abbatte su un albero».
È l’eco della battuta pronunciata dall’ottantasettenne cameriere Firs: «La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta». E c’è davvero tutto in quella didascalia e in quella battuta: la conclusione della trama (ossia l’abbattimento del giardino del titolo, venduto come area edificabile per far fronte ai debiti di Ljuba Andreevna Ranevskaja), l’addio alla vita di Cechov (che morirà di tubercolosi il 2 luglio 1904, appena pochi mesi dopo il debutto della commedia, il 17 gennaio di quell’anno, nel Teatro d’Arte di Stanislavskij) e – last but not least – il tema centrale della drammaturgia cechoviana: la vita ridotta a un limbo schiacciato fra il rimpianto di un passato che non può tornare e l’attesa di un futuro vago in cui, del resto, non si crede nemmeno più.
Quindi, sono l’immobilità e la reiterazione i connotati salienti de «Il giardino dei ciliegi»: vedi la presenza di un personaggio assolutamente emblematico come Piotr Trofimov, l’eterno studente che, davvero non a caso, è stato il maestro di Griscia, il bambino di Ljuba morto annegato e, a sua volta, emblema del sopravvivere asfittico che qui spasima, tra lacrime d’impotenza e terribili conati d’involontaria comicità.

Lev Dodin

Lev Dodin

Rispetto a tutto questo, l’elemento-chiave del testo, che ricorre alternativamente come concetto o parola specifica, è il consiglio. Lo sappiamo, si chiede consiglio perché si vuole avere fiducia in qualcuno, per stabilire un contatto, per non essere più soli. E infatti è la solitudine la terza condanna che per i personaggi qui in campo si aggiunge all’immobilità e alla reiterazione.
Nella circostanza, a chiedere consiglio, fra quei personaggi, è naturalmente Ljuba. Ma lo chiede proprio a chi, Lopachin, non può darglielo, perché letteralmente murato nel suo progetto di lottizzare il giardino dei ciliegi per costruirci villette. Né possono darglielo, poniamo, l’apatico fratello Gaev, che pensa solo al biliardo, o il triste contabile Epichòdov, ossessionato dall’idea del suicidio. Il primo, a Trofimov che insiste col ritornello «Bisogna lavorare», replica: «A che serve? si muore»; e il secondo, di fronte al giovane cameriere Jasha che sogna Parigi come la terra promessa, confessa avvilito: «Non so se, insomma, voglio vivere o spararmi… e per  ogni eventualità, mi porto sempre addosso una pistola a tamburo».
In fondo, l’unico che un consiglio lo dà è lo studente a vita Trofimov. Ma lo dà, e ancora non a caso, proprio a chi non ne ha bisogno per la ragione suddetta, appunto Lopachin. E, per giunta, si tratta di un consiglio di questo tenore: «Non gesticolare tanto!». Un’autentica sigla della melodrammatica e ridicola inanità qui in atto.
Ebbene, ci si accorge della chiave di regia che Dodin ha adottato nei confronti di un quadro del genere già entrando in sala. Il palcoscenico è completamente vuoto, non c’è il sipario e tutti gli arredi previsti dal testo sono ammucchiati sotto il proscenio. Ma non ci troviamo davanti alla solita abolizione della proverbiale quarta parete: Dodin rimarca così, e in maniera eclatantemente radicale, lo scarto decisivo fra la recita e la realtà, fra il passato, costituito dallo stesso testo di Cechov in sé, e il nostro presente.
A sottolineare ulteriormente questo scarto, e il confine su cui deflagra, stanno poi le due porte che si fronteggiano dagli angoli opposti del proscenio: galleggiano nel vuoto, avulse da una struttura scenografica, e, se pure si aprono, danno solo sui corridoi laterali, anch’essi vuoti, del teatro.
Firs, che compare all’inizio e alla fine sul palcoscenico, si mantiene quasi sempre sulla soglia della porta di destra. È prigioniero, per l’appunto, del confine di cui sopra. E la sua battuta conclusiva Dodin gliela fa pronunciare in apertura: sicché tutto quello che segue si manifesta come un lungo flashback. Come qualcosa che è già accaduto e che, perciò, non si può modificare.

Danila Kozlovskij ed Elizaveta Bojarskaja in un altro momento dello spettacolo, in scena fino a domenica al Piccolo Strehler

Danila Kozlovskij ed Elizaveta Bojarskaja in un altro momento dello spettacolo, al Piccolo Strehler fino a domenica

Gli altri, lo avrete intuito, si muovono sul bordo del proscenio (ancora il confine) o ai suoi piedi o lungo la sala. Mentre il famoso giardino di cui si parla viene ridotto a un film in bianco e nero proiettato sullo schermo che scende a sostituire il sipario: i personaggi, seduti nelle prime file di poltrone, guardano nel film se stessi com’erano in un tempo lontano; e li intravvediamo in azione dal vivo sul palcoscenico solo se lo schermo-sipario si solleva per qualche fuggevolissimo istante, altrimenti appaiono come ombre che si confondono con i fantasmi di celluloide che li sostituiscono durante la proiezione. E due bobine del film, consegnate da Lopachin l’una a Ljuba e l’altra a Gaev, sono l’unica cosa che rimane del giardino che – ricordate le ultime parole di Ljuba? – era la sua «vita», e con essa la «giovinezza» e la «felicità».
Insomma, è proprio vero quel che Dodin ha dichiarato ad Anna Bandettini: «Il “Giardino” oggi non è più il simbolo di un passato da superare, ma rappresenta i valori etici e storici dell’umanità, quello che si può ancora salvare».
Di conseguenza, questo splendido spettacolo, in assoluto uno dei più lucidi e intriganti che abbia mai visto, approda al lancinante risultato di mandare il teatro in esilio dal teatro, dal teatro come recitarappresentazione, per collocarlo in mezzo a noi, ai nostri problemi e alle nostre angosce attuali. Ed è inutile elencare puntigliosamente le strepitose invenzioni che al riguardo dissemina la regia.
Ne cito solo due: quella di Lopachin che si mette a cantare una «My way» («Ho vissuto una vita piena / ho viaggiato su tutte le strade») scandita dal rumore amplificato delle palle da biliardo che cozzano fra loro e quella conclusiva di Firs che, rimasto solo in quelle stanze chiuse a chiave dallo stesso Lopachin, picchia con i pugni contro lo schermo-sipario, che a un certo punto cade per mostrare un fondale fatto delle tavole di legno risultate dall’abbattimento dei ciliegi e in cui a ciascuna di quelle tavole si sovrappone la fotografia di uno dei personaggi. Mentre, è quasi superfluo annotarlo, una sirena d’allarme aveva sostituito la «corda di violino che si spezza» di Cechov.
Infine, dovrei parlare della prova memorabile che offrono gli attori straordinari in campo nell’occasione. Mi limito a citare Igor Chernevich (Gaev), Danila Kozlovskij (Lopachin) ed Elizaveta Bojarskaja (Varja). E dell’inenarrabile protagonista, Ksenia Rappoport (sì, quella dei film «La sconosciuta» di Tornatore e «Il ragazzo invisibile» di Salvatores), che dire? La sua Ljuba è un fascio di nervi scoperti. Bellissima, in una fremente presenza/assenza che davvero incarna i versi di Cardarelli che possiamo assumere come epigrafe: «Ora passa e declina, / in quest’autunno che incede / con lentezza indicibile, / il miglior tempo della nostra vita / e lungamente ci dice addio».
Lo spettacolo è terminato. Sul palcoscenico la solita piccola cerimonia che sempre mi ha commosso: gli attori che schierati fianco a fianco applaudono Lev Dodin, questo siberiano che conosce il calore.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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6 risposte a «Il giardino dei ciliegi» come esilio del teatro dal teatro

  1. Francesco Scotto scrive:

    È proprio vero, gentile Dottor Fiore, è uno spettacolo che scalda il cuore. E forse quella “corda del violino che si spezza” rappresenta anche l’allarme sul vuoto del teatro di questi anni che magicamente Dodin riesce a colmare, riannodando un legame di emozioni con Strehler.
    Francesco Scotto

  2. Enrico Fiore scrive:

    Sì, gentile Signor Scotto. Quando nello spettacolo di Dodin il sipario-schermo si solleva per qualche attimo, mettendo in comunicazione gli attori e gli spettatori, è perfettamente giustificato paragonarlo al velo carico di foglie autunnali che Strehler, nel suo allestimento de “Il giardino dei ciliegi”, stendeva, insieme, sul palcoscenico e sulla platea. Ribadiva, quel velo, la bellissima definizione che proprio Strehler mi diede una volta del teatro: “È lo stare dell’uomo con l’uomo”.
    Enrico Fiore

  3. Rosa Startari scrive:

    Gentile Enrico,
    ho letto con molto interesse il suo commento al “Giardino” di Dodin: l’ho fatto in preparazione della visione del “Giardino” nella versione di Alessandro Serra che ho visto il 19 maggio al Teatro Ponchielli di Cremona. Nei prossimi giorni, lo spettacolo sarà al Bellini e spero proprio che lei possa vederlo così da poter leggere la sua analisi in merito.
    Seguo Alessandro Serra perchéè mi pare un vero poeta della scena e uno di quei registi che presto diventerà un “classico” di questa arte. Tuttavia, il “Giardino” visto al Ponchielli mi ha lasciato un po’ d’amaro in bocca. Ljubov’ mi è parsa invisibile, sbiadita; Gaiev e Carlotta mi sono parsi quelli più riusciti. Ma, in generale, è stato come se lo spettacolo fosse rimasto invischiato, trattenuto dal di fuori, nonostante l’incanto delle luci, delle musiche e dei movimenti scenici, davvero geniali a mio parere. Inotre, proprio Ljubov’ si sentiva male, a fatica. Può darsi che questo effetto, deleterio, sia stato provocato dall’acustica del Ponchielli (ho letto uno studio secondo il quale nei teatri d’opera, in generale, la chairezza è sacrificata nelle posizioni centrali della platea, ed io stavo là). Gli altri attori urlavano e questo può aver smorzato la forza dell’incanto e della suggestione. Insomma, un vero peccato, che non mi ha dato la possibilità di godere appieno del “Giardino”. Spero di poter leggere le sue note nei prossimi giorni.
    A presto,
    Rosa Startari

  4. Enrico Fiore scrive:

    Cara Rosa,
    purtroppo non potrò vedere al Bellini il “Giardino” di Serra, come avrei voluto: sarò a Milano, alle prese con il festival organizzato dal Piccolo per celebrare il settantacinquesimo anniversario della sua fondazione. Ma non mi sorprende la delusione che lei ha provato vedendo lo spettacolo a Cremona. L’ho provata anch’io vedendo a Torino l’allestimento da parte di Serra de “La tempesta” shakespeariana. Non vorrei che Serra, regista senz’alcun dubbio talentuoso, si sia un po’ “seduto” dopo il successo ottenuto col suo splendido “Macbettu”.
    Speriamo bene. E intanto le mando i più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

  5. Rosa Startari scrive:

    Grazie, Enrico.
    Ah sì, speriamo bene. Davvero sarebbe un peccato se Serra avesse smarrito il senso del suo talento.
    Buoni festeggiamenti al Piccolo, Le ricambio la cordialità dei saluti e continuo a leggerla (a margine, volevo dirle che avevo linkato il suo commento sul “Ferdinando” di Nadia Baldi ad uno degli innumerevoli post trionfalistici del Teatro Elfo Puccini su FB: beh, non ci crederà, ma lo hanno cancellato … vade retro critica!).
    A risentirci.
    Rosa Startari

  6. Enrico Fiore scrive:

    Già, cara Rosa. Ormai la critica teatrale (come tante altre cose, l’università, il giornalismo…) è soltanto una vaga ipotesi. Perché fa comodo a tutti – principalmente, si capisce, ai teatranti, in barba ai loro proclami in favore della cultura – il silenzio complice dei cosiddetti “esperti”.
    A presto.
    Enrico Fiore

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