Bambinaia per sempre, nel limbo fra passato e presente

Giulia Lazzarini e Sergio Romano in un momento di «Emilia», in scena all'Argentina di Roma fino al 23 aprile (le foto dello spettacolo sono di Achille Le Pera)

Giulia Lazzarini e Sergio Romano in un momento di «Emilia», in scena all’Argentina di Roma fino al 23 aprile
(le foto dello spettacolo sono di Achille Le Pera)

ROMA – Ho pensato a «La musica dei ciechi» di Viviani mentre, all’Argentina, assistevo a «Emilia», lo spettacolo – su testo e con la regia dell’argentino Claudio Tolcachir – prodotto dal Teatro di Roma per il gran ritorno in scena di Giulia Lazzarini nel ruolo del titolo: perché, se i suonatori ambulanti di Viviani parlano e si comportano come se ci vedessero, i personaggi di Tolcachir – Walter, sua moglie Carolina, Leo (il figlio che Carolina ha avuto dal precedente matrimonio con Gabriel) e lo stesso Gabriel – fanno finta di vivere nel presente laddove non sono che escrescenze del passato.
Lo anticipa la primissima battuta di Emilia: «C’è un momento nella vita in cui i morti si fanno più presenti dei vivi»; e ancora Emilia lo ribadisce, quando constata: «[…] sono più le cose che si ricordano di quelle che si vivono».

Claudio Tolcachir

Claudio Tolcachir

Qui, infatti, Emilia diventa l’arbitro del duello, tanto crudele quanto ineffettuale, che si consuma, per l’appunto, nel limbo fra il passato e il presente. È stata la bambinaia di Walter, il quale, incontrandola dopo vent’anni di lontananza, la invita a casa per farle conoscere quella che presenta come una famiglia normale e a suo modo felice. Ma sarà proprio Emilia a far emergere i drammi piccoli e grandi che si celano sotto la superficie dell’apparenza: dal Walter che «ha bagnato il letto fino a tredici anni» al padre che, allenatore di una squadra di pallavolo, non lo faceva mai giocare perché non ammetteva che sbagliasse. Ed è alla luce di questi precedenti che si scopre a poco a poco quanto Walter sia autoritario e violento.
Ebbene, il primo scatto rilevante dell’impianto drammaturgico di Tolcachir sta nel fatto che Emilia non rievoca, ma entra in quei precedenti. Si comporta, cioè, come l’Isak Borg de «Il posto delle fragole» di Bergman, il quale, nei flashback relativi ai propri ricordi, entra da vivo, com’è adesso, addirittura confrontandosi, da vecchio, col se stesso giovane. E infatti quei ricordi, assai spesso, Emilia li espone rivolgendosi direttamente al pubblico, mentre d’altro canto insiste a dire, giusto, ch’è vecchia.

Pia Lanciotti è Carolina

Pia Lanciotti è Carolina

Non a caso, del resto, s’accampa nella circostanza una dimensione di transito: Walter, Carolina e Leo vengono colti nel momento in cui hanno appena traslocato in una nuova casa, sicché non fanno che cercare negli scatoloni sparsi qua e là tutta una serie di cose che sanno di aver portato con sé (il passato, appunto) ma che adesso non riescono a ritrovare; e ancora non a caso, poi, a dire del falso presente in cui fingono di vivere giunge una battuta di Walter assolutamente decisiva: «Non mi fido di questo quartiere, non lo conosco».
Inoltre, va da sé, ed è un ulteriore pregio del testo, che tale e tanta ambivalenza/ambiguità si traduce in un’alternanza e in una compresenza di comicità, sia pure livida, e di sberleffo straniante. Quando Emilia comincia a scoprire gli altarini, Walter commenta: «Non so se mi conviene un granché questa visita»; e a sua volta Emilia, raccontando della morte del cane Rocco, prima dice ch’è rimasta con lui tutta la notte, «abbracciandolo fino al mattino», e poi, d’un tratto, aggiunge: «Ma solo perché non sapevo che fare».
Davvero un gran bel testo, insomma: giacché, senza parere, tira fendenti impietosi al nostro apparato di menzogne e ipocrisie quotidiane. Come si poteva rendere la condizione asfittica in cui tutti noi oggi affoghiamo meglio che con la sintesi lucidissima e disperata che conia Walter – «Un po’ di colpa… un po’ di abitudine… un po’ di paura» – per sottolineare quell’oscillazione obbligata fra un passato da dimenticare (ma che pesa) e un presente da invocare (ma che si nega)? E a sciogliere un simile nodo arriva, infatti, un epilogo tragico, plausibile e in qualche modo prevedibile perché anch’esso obbligato: Walter uccide Carolina, la quale vuole lasciarlo, ed Emilia continua a fargli da balia accusandosi dell’omicidio.

Josafat Vagni è Leo

Josafat Vagni è Leo

Venendo adesso allo spettacolo, dico subito che la regia di Tolcachir illustra tutto quanto sopra con precisione ammirevole. A partire dall’impianto scenografico di Paola Castrignanò: una distesa informe di casse e coperte, appunto i segni del trasloco, che, però, è circondata dal buio e dal vuoto; e al centro una porta che s’apre, ovviamente, solo su quel buio e quel vuoto: la visualizzazione di ciò che rappresenta Emilia, la soglia fra il passato e il presente. Infatti, proprio da tale porta fa il suo ingresso la bambinaia per sempre; e proprio contro tale porta Walter sbatte Carolina fino a soffocarla. Mentre a far da simbolo dell’«altro» e del «prima» che circondano l’azione sta – un’invenzione non meno decisiva – il Gabriel che rimane in vista, dall’inizio alla fine, anche quando non partecipa all’azione medesima e, quindi, non ha battute da pronunciare.
Infine, ma davvero last but not least, poche parole sulla prova straordinaria di Giulia Lazzarini: la sua Emilia trasuda, letteralmente, tutta la tenerezza ma anche tutta la perfidia che sono in quel personaggio; e le sue controscene sono senz’alcun dubbio da collocare in un’ideale antologia delle prove d’attrice: per circa metà dello spettacolo non ha (o quasi) la battuta, e tuttavia riesce a mettere in campo – pure con un semplice sguardo, con un minimo gesto, con un impercettibile movimento – quella che appare una presenza incomparabilmente necessaria.
Bravi, nel complesso, anche gli altri: Sergio Romano (Walter), Pia Lanciotti (Carolina), Josafat Vagni (Leo) e Paolo Mazzarelli (Gabriel). E moltissimi e convinti gli applausi alla «prima», con tutto il pubblico in piedi per quella minuscola ottantatreenne che sul palcoscenico continua a diventare una gigantessa.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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