Quando il web finisce nella discarica dei computer

Fatou Hane e François Sauveur in una scena di «Black clouds» (foto di Salvatore Pastore)

Fatou Hane e François Sauveur in una scena di «Black clouds» (foto di Salvatore Pastore)

NAPOLI – Tre personaggi emblematici presiedono a «Black clouds», il nuovo spettacolo di Fabrice Murgia dato al Politeama nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia: Steve Jobs, il padre del Mac, Thomas Sankara, il «Che Guevara africano» che fu il primo presidente del Burkina Faso, e Aaron Swartz, il tecnico informatico morto suicida, a 26 anni, un mese prima d’essere processato per la sua battaglia in favore del libero accesso a Internet.
All’assemblea generale degli azionisti di Apple, svoltasi a Cupertino il 24 gennaio 1984, Jobs presenta la sua creatura dicendo: «Ecco il medium attraverso il quale potrete far passare i vostri pensieri. Il medium più idoneo a trasmettere i sentimenti che provate e che volete condividere». All’assemblea generale delle Nazioni Unite, il 4 ottobre dello stesso anno, Sankara dice: «Vi porto il saluto fraterno di un paese in cui sette milioni di bambini, di donne e di uomini rifiutano ormai di morire d’ignoranza, di fame, di sete». E nel corso di un’intervista Swartz dice: «Wikileaks rivela delle cose spiacevoli sul governo U.S. Le persone si organizzeranno, manifesteranno e cercheranno di cambiare il loro governo. Ed è un’ottima cosa!».
In breve, c’imbattiamo qui in un web che, partendo dalla propria mistica e dalla propria fede nella rete come strumento potente e insostituibile per assicurare la democrazia, deve confrontarsi con l’altro da sé costituito dal mondo e dai problemi drammatici che lo torturano. E dunque il trentatreenne autore e regista belga, Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2014, compie – pur restando fedele ai temi principali che ne distinguono l’attività – un notevole passo avanti.
In «Notre peur de n’être (La nostra paura di non essere)», lo spettacolo che Murgia presentò nell’agosto dell’anno scorso per l’appunto alla Biennale Teatro, ci veniva fornito il ritratto preciso del personaggio chiamato in Giappone «hikikomori», ossia del giovane iperconnesso che vive nel e del rifiuto di ogni contatto con la realtà. E quale fosse il «non essere» che lo impauriva veniva riassunto da Hiki con icastica linearità: «Mi dispiace di essere fuggito. Non sapevo dove andare. Non ho boschi in cui essere solo. Sono fuggito all’interno. Oggi non esco. Perché fuori fa freddo. Perché fuori non puoi dire: “Non lo so”. Non si può dire: “Vorrei avere il tempo per rifletterci”».
In «Black clouds», invece, la «fuga» si determina verso l’esterno: e si tratta di un esterno connotato, per riassumere, dallo scarto economico fra il Nord e il Sud, dalle truffe on line, dal turismo sessuale, dagli spazi di Internet invisibili agli utenti comuni e accessibili solo a chi ne possiede i codici. Siamo di fronte, insomma, alla doppia e ambigua valenza del web, che da un lato favorisce l’emancipazione e dall’altro provoca l’asservimento.
Tutto questo è illustrato simbolicamente dal continuo intrecciarsi dell’utopia di un uomo bianco che vuol farsi macchina e dell’indomita volontà di sopravvivere come essere umano di una donna nera, regina – coi polmoni bruciati dal fumo – di una discarica di computer e televisori in cui i bambini a caccia di rame incendiano la plastica. E finisce che proprio lì va a morire quell’uomo bianco, fra le braccia di quella donna nera che lo culla come in una gelida Pietà scolpita dalla tecnologia.
Certo, sembra un po’ troppa la carne messa a cuocere da Murgia. E non sempre risulta significativo o semplicemente chiaro il rapporto fra l’azione dal vivo e le immagini che di quella vengono proiettate sugli schermi installati sul palcoscenico. Ma indubbiamente bravi sono gl’interpreti: Valérie Bauchau, Fatou Hane, El Hadji Abdou Rahmane Ndiaye e François Sauveur. E non mancano, come implicitamente ho accennato, gli spunti di poesia.
In ogni caso, l’autore e regista di Verviers si conferma, anche con questo spettacolo, fra i teatranti maggiormente attenti al nostro complesso e difficile presente.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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