Il beffardo minuetto dell’addio di Molière

Anna Della Rosa e Gioele Dix ne «Il malato immaginario»

Anna Della Rosa e Gioele Dix ne «Il malato immaginario»

«Il malato immaginario» è il lancinante e beffardo minuetto d’addio di un autore che gioca con la morte, la guarda in faccia e sorride. Infatti, Molière morì, la sera del 17 febbraio 1673, poco dopo aver smesso di recitare nella quarta rappresentazione di quella commedia, come sappiamo l’ultima che scrisse. E dunque non bisogna mai dimenticare, di fronte al testo in questione, che se immaginarie sono le malattie del personaggio protagonista, Argante, non lo erano affatto quelle di chi lo aveva creato e, da attore, gli dava vita in scena.
Insomma, qui l’immaginario è solo, e nella realtà, quello a cui spalanca le porte un malato chiuso nella ragnatela delle proprie sofferenze: le quali, poi, si riassumono nella solitudine e nell’irrazionale paura della morte. E da tanto discendevano (giusta la forma di «comédie-ballet» che l’opera aveva in origine) la fuga nel canto e nella danza, totalmente astratti. Era una fuga che traduceva l’impossibilità, per Molière, di raccontare – al cospetto della corte!… – il Tragico in genere e la sua tragedia personale in aggiunta.
Non a caso, d’altronde, questa è l’unica commedia in cui Molière porti alla ribalta rapporti fra medici e pazienti non finti (come, poniamo, in «Le médecin malgré lui»), ma esattamente individuati sul piano storico.
Non sembra, però, che Andrée Ruth Shammah – regista dell’allestimento de «Il malato immaginario» che il Teatro Franco Parenti presenta al Mercadante – si sia molto preoccupata di un simile quadro. Qui (e peraltro in contrasto con l’algida eleganza della scena di Gianmaurizio Fercioni) a farla da padrona è soprattutto la farsa, che, per giunta, talvolta approda addirittura alla macchietta. Vedi, per esempio, i lunghi camici bianchi che i Purgon padre e figlio indossano sotto il cappotto e sopra il completo scuro.
Che alla Shammah interessino fondamentalmente il gioco e l’intrattenimento viene rivelato, del resto, dal fatto che a un certo punto incarica di chiudere il sipario, accostandone i due lembi, proprio quella serva Tonina ch’è il «deus ex machina» del rinsavimento di Argante. Del quale ultimo, poi, Gioele Dix fa, com’è nelle sue corde di comico, un piacione tutto bonomia e colloquialità salottiera.
Insomma, uno spettacolo di puro consumo, connotato da una professionalità che non lascia tracce. L’unica che si distingue è Anna Della Rosa, per l’appunto nel ruolo di Tonina: ci mette un pizzico di follia e, quando si traveste da medico, spinge il grottesco fino all’iperbole surreale.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 6 febbraio 2015)

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