Elena, una luce che si spegne

Elena Arvigo in un momento di «Elena», in scena all’Argot Studio
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Alessandro Villa)

ROMA – Dopo aver letto il mio commento a «Una storia al contrario», lo spettacolo di Elena Arvigo tratto dal libro omonimo di Francesca De Sanctis e presentato nel Ridotto del Mercadante, Francesca mi ha scritto: «Se una storia accende altre storie allora, forse, valeva la pena raccontarla».
La considerazione si riferiva alla sua vicenda personale (quella di vice caposervizio delle pagine di Cultura e Spettacoli de «l’Unità» rimasta disoccupata in seguito alla chiusura del giornale fondato da Gramsci) e al fatto che, nel mio commento, rievocavo la precedente vicenda analoga di «Paese Sera». E adesso, dopo aver visto all’Argot Studio lo spettacolo di Elena Arvigo tratto da «Elena» di Yannis Ritsos, ecco che, per l’appunto, la storia contenuta nel poemetto del poeta greco ne accende un’altra, quella che riguarda me e lo stesso Ritsos.
L’ho già raccontata, ma, per parafrasare Francesca De Sanctis, vale, senza forse, la pena di raccontarla di nuovo.
Comincia con l’arrivo a Castellammare, dove allora vivevo, di Michalis Lilis, un intellettuale greco in esilio (e in esilio morì, dieci minuti prima di arrivare a Patrasso, sul traghetto che lo riportava nella Grecia finalmente libera) insieme col quale scrissi un saggio, che naturalmente nessuno volle pubblicare, in cui sostenevamo che il colpo di stato dei colonnelli veniva da lontano, affondando le radici – giacché il vuoto lasciato a sinistra viene inevitabilmente colmato dalla destra – in quegli accordi di Varkiza che nel ’45 costituirono il primo esempio di compromesso storico.
In una notte d’agosto del ’72, ad Atene, incontrai – in una casa bianca di fronte al Partenone, ch’era la casa di Michalis – proprio lui, Yannis Ritsos, da pochi mesi tornato dal carcere e dal confino dei colonnelli, lui che, comunista, già aveva conosciuto, fra il ’48 e il ’52, l’internamento nei «campi di rieducazione».
Dunque – allorché, nel 1992, mi propose di ricavare giusto dai versi di Ritsos un testo teatrale per il suo assistente, Orlando Forioso – Maurizio Scaparro si rivolse, senza nemmeno immaginarlo, alla persona più adatta. Subito scrissi alla figlia del poeta, Elefteria, per chiederle il permesso di utilizzare l’opera del padre. E sulle prime rimasi di stucco: Eri, così la chiamavano gl’intimi, non solo mi diede quel permesso, ma aggiunse che rinunciava a tutti i suoi diritti e mi lasciava libero, per sempre, di servirmi degli scritti paterni come meglio avessi ritenuto. Davvero non credevo ai miei occhi, leggendo la lettera che mi mandò. Poi capii: evidentemente il padre doveva averle parlato di quel piccolo italiano che, in una lontana notte d’agosto, gli aveva cantato, con una chitarra mezzo sfondata, «La ballata del Pinelli».
Mi misi quindi al lavoro. Per scrivere il copione che mi aveva chiesto Scaparro utilizzai, di Ritsos, il poemetto del ’58 intitolato «Le vecchie e il mare», l’altro poemetto «Le messaggere», scritto fra il ’67 e il ’69, e tre corali composti tra il ’44 e il ’47. E ne risultò una sorta di oratorio laico fondato su una situazione di partenza semplicissima.
In un’isola imprecisata della Grecia, sette anziane donne siedono al tramonto davanti alle loro case, sulla riva del mare. Parlano. Parlano soprattutto dei loro uomini partiti chissà quando per chissà dove: forse sono in mare, forse in guerra, più probabilmente stanno combattendo da partigiani contro l’occupazione nazifascista.
Ma, su questa situazione semplicissima, io innestai una novità sostanziale. Lasciando intatto il prezioso tessuto lirico della scrittura di Ritsos, lo spinsi, però, a contatto con una precisa realtà storico-politica, a cui il poeta aveva soltanto accennato senza mai nominarla direttamente. Così, manco a dirlo, introdussi nel testo un personaggio, chiamato «lo Straniero», che non era altri che Michalis Lilis. E così, tanto per fare un altro esempio, i pescatori greci in rivolta contro i padroni delle barche cantavano Viviani («’E vuzze d’ ‘o ssicco, cu ll’uommene attuorno, / cu “Oh! tira!” e cu “Oh! venga!” se scenneno a mare»…) e a un certo punto diventavano gli operai del cantiere navale di Castellammare impegnati in una dura lotta per difendere il posto di lavoro.
Di conseguenza, le sette donne, che nel poemetto di Ritsos sono indifferenziate ed equivalenti (si chiamano, infatti, soltanto Prima, Seconda, Terza, Quarta, Quinta, Sesta e Settima), nel mio testo si trasformavano in altrettanti gradi progressivi di coscienza, prima civile, quindi politica e infine rivoluzionaria. Non a caso, davanti all’interrogativo sulla probabilità che i loro figli avessero seguito un’altra «madre», una delle vecchie rispondeva che quella nuova «madre» era Aris Velouchiotis, il leggendario capo dei partigiani comunisti greci.

Monica Santoro ed Elena Arvigo in un altro momento dello spettacolo

Il testo – intitolato, appunto, «Le vecchie e il mare» – fu portato in scena dal Teatro Stabile di Sardegna per l’interpretazione di Maria Grazia Bodio, Lia Careddu, Fulvia Carotenuto, Cristina Maccioni, Marilena Monti, Isella Orchis e Grazia Radicchi. Il debutto avvenne il 22 luglio del ’93 nel teatro romano di Nora, l’unico teatro romano che si trovi sulla riva del mare. E debuttò, «Le vecchie e il mare», nell’ambito di un festival prestigioso, «La notte dei poeti», che vantava, fra l’altro, le presenze di Giorgio Albertazzi e di Milva, che cantava Brecht con la regia di Strehler.
La sera del debutto soffiava dal mare un vento furioso. E le attrici erano molto preoccupate, perché, durante lo spettacolo, il vento si sarebbe infilato nei microfoni e ne avrebbe fatto uscire strepiti rauchi che avrebbero coperto le parole. Io, invece, ero preoccupato perché, a un quarto d’ora dall’inizio, si contavano sì e no una ventina di spettatori. Poi, improvvisamente, il vento cessò. E altrettanto improvvisamente la cavea del teatro si riempì fino al gradino più alto. C’erano molti turisti e, soprattutto, molti bambini. E io mi chiedevo, ancor più preoccupato: questi chi li tiene, chi li terrà fermi e zitti a sentire parole così difficili?
Ma risuonò la prima battuta – «Appena si fa sera, usciamo qui fuori e ci sediamo a sentir sul viso il vento che viene dal mare, ad alleviarci, noi già alleviate, a riposarci dal non aver più nulla da fare, a dimenticarci, noi già dimenticate…» – e un silenzio religioso scese su quelle antiche pietre. E non se ne andò più fino al termine, quando venne travolto dagli applausi di tutti, compresi i bambini. Le attrici mi chiamarono sul palcoscenico a ringraziare insieme con loro. Ed io inciampai e finii lungo disteso, perché non vedevo più niente. Avevo gli occhi pieni di lacrime.
Lo spettacolo, più volte ripreso (Maria Grazia Sughi ed Elena Ledda presero successivamente il posto della Radicchi e della Maccioni), chiuse nel 2009 la Biennale Teatro. E anni dopo Lia Careddu mi disse: «Noi possiamo rifarlo sempre, in ogni momento e senza bisogno di prove: perché è dentro di noi».
Certo. La poesia di Ritsos parla con la voce della vita, e di quella voce s’era fatto eco il mio testo. Non altro che la vita, infatti, Ritsos cantò anche nei versi estremi della raccolta, pubblicata postuma, «Tardi, molto tardi nella notte». Contro l’amarezza e lo smarrimento che potrebbero indurre le delusioni e la coscienza della fine imminente, ricorda a sé stesso: «La tua prima parola e l’ultima / l’hanno detta l’amore e la rivoluzione». E circa il poeta ch’è stato, aggiunge: «Quando se ne andrà / (perché un giorno tutti ce ne andiamo), credo che resterà / un sorriso dolcissimo in questo mondo / che dirà incessantemente “sì” e ancora “sì” / a tutte le secolari speranze vanificate».
Ma vengo, adesso, al testo di Ritsos che, nell’eccellente traduzione di Nicola Crocetti, costituisce la materia dello spettacolo di Elena Arvigo. Si tratta di un poemetto in forma di monologo drammatico che fa parte della raccolta «Quarta dimensione». E scritto da Ritsos tra il maggio e l’agosto del 1970, nel periodo del domicilio coatto a Karlòvasi, sull’isola di Samo, mette in scena un’Elena ormai vecchissima e sfatta che si confessa, tra memoria e disincanto, a un visitatore (con tutta probabilità «figura» dello stesso poeta) costantemente muto.

Ancora Elena Arvigo nei panni della Elena reinterpretata da Yannis Ritsos

Ebbene, subito, nella lunghissima didascalia che fa da prologo, Ritsos dà un saggio di quella che è la sua caratteristica alta e decisiva: la capacità di fondere la dimensione quotidiana e l’aura del mito, per immergerle, poi, nelle più profonde implicazioni dell’etnolinguistica. Il visitatore dice della Elena di un tempo, «molto giovane», che «irradiava» una luce «così forte» che «ti accecava, ti trafiggeva». E questo rimanda alla radice indoeuropea «ve-el», da cui deriva la parola «vedere» e che significa, quindi, «conoscenza». Perciò si chiamano Veda i millenari Libri della saggezza indiani. Perciò i greci chiamavano il sole «el-ios». E perciò Omero chiamò Elena per l’appunto «la risplendente».
Non sorprende, allora, che questa Elena, la Elena che ha perso la «luce», si aggrappi alle cose. Potrebbe ripetere, con la Winnie di Beckett, che solo «le cose (il corsivo è dello stesso Beckett) hanno una loro vita». Anzi, a fronte delle parole, consunte come il suo corpo (dice che «non servono»), proprio alle cose affida il compito di segnalare e scandire i movimenti e i mutamenti, anche minimi, che si determinano nel succedersi immobile dei giorni. Vedi il passo, non a caso collocato in posizione fortemente icastica, all’inizio del suo monologo, in cui osserva: «Credo si avvicini l’estate; si muovono diversamente le tende – vogliono dire qualcosa – sciocchezze. Una di esse è già uscita fuori dalla finestra, tira, vuole rompere gli anelli, fuggire sugli alberi – forse cerca addirittura di trascinare altrove tutta la casa».
Di qui, ovviamente, l’invito al visitatore: «Abbi cura di te. Non darti troppa pena per eroismi, gradi e glorie». E di qui, altrettanto ovviamente, la sensazione di sentirsi «serrata in ogni istante (perfino durante il sonno) come in un’armatura gelida», o di sentire il proprio «corpo intero» come imprigionato «entro un busto di legno, come» – precisa – «in un mio cavallo di Troia, ingannevole, stretto, conoscendo ormai la vanità dell’inganno e dell’illusione, la vanità della fama, la vanità e la precarietà di ogni vittoria».
Davvero sarebbe difficile immaginare una più veemente requisitoria contro la retorica consolatoria dei miti classici. La Elena di Ritsos constata: «Gli eventi che di solito definiamo grandi di dissolvono, si estinguono – l’assassinio di Agamennone, l’uccisione di Clitennestra (mi avevano inviato da Micene una sua bella collana, fatta di piccole maschere d’oro, congiunte con anelli in alto sulle orecchie – non l’ho mai messa). Si dimenticano; restano altre cose, accessorie, insignificanti».
Infatti, Elena sa bene – e in ciò risiede il senso vertiginoso del testo – che «là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli, tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro».
Si sentono echi de «La cognizione del dolore» di Gadda. E insieme, tenendo presente anche il passo in cui Elena accenna alle sue «ultime statue», del «Giardino autunnale» di Campana: «E dal fondo silenzio come un coro / tenero e grandioso / sorge ed anela in alto al mio balcone: / e in aroma d’alloro, / in aroma d’alloro acre languente, / tra le statue immortali nel tramonto / ella m’appar, presente».
In più, regala pure un monito sul presente sbrindellato che ci tocca, la Elena di Ritsos. Dice al suo visitatore silenzioso: «La conosci bene la monotonia della nostra vita. Perfino i giornali simili nel formato, nello spessore, nei titoli – non li leggo nemmeno più. Di tanto in tanto bandiere sui balconi, feste nazionali, parate militari, come caricate a molla».
«Tacque. Reclinò il capo all’indietro. Forse si era addormentata». Così, con tenerezza e delicatezza infinite, l’ultima didascalia descrive la morte di Elena. E così racconta del visitatore che si allontana: «Era sorta la luna. Le statue del giardino illuminate fiocamente – le statue di lei, solitarie, accanto agli alberi, fuori della casa coi sigilli. E una luna tranquilla, ingannatrice. Dove sarebbe andato adesso?».
Già, dove andrà il poeta senza l’oggetto della sua poesia? La risposta, forse, la può dare proprio il teatro, perché è l’unico luogo in cui, nella vicinanza dei rispettivi corpi, gli uomini e le donne raccontano storie ad altri uomini e ad altre donne. E il fatto che quelle storie si ripetono sera dopo sera, sempre uguali e sempre diverse, significa che sera dopo sera torna a vivere l’oggetto della poesia del poeta.
Dal canto suo, e vengo con ciò allo spettacolo in sé, l’allestimento è una perfetta proiezione di tutto questo. La regia di Elena Arvigo inquadra il cuore del testo con decisione e precisione assolute: a cominciare dal fatto che sostituisce il visitatore muto di Ritsos con una bravissima Monica Santoro che si esprime col flauto traverso e col canto, giacché, s’intende, la musica determina il massimo della comunicazione pur prescindendo dalle parole. Le quali, poi, vengono adoperate dalla Elena Arvigo attrice con una sensibilità – appassionata e tormentata insieme – ch’è capace di sviscerarne anche le più segrete vibrazioni, in tal modo spogliandole d’ogni lenocinio che sia dettato dal loro uso (e abuso) comune.
La regia, poi, tocca il suo acme nella sequenza iniziale, davvero degna di un’ideale antologia del teatro: la Elena della Arvigo fa i suoi bisogni, seduta sul vater dietro una tenda trasparente, mentre si levano le note paradisiache di «Casta Diva». È un’autentica incarnazione del simbolico mélange di «alto» (la raffinatezza della scrittura) e «basso» (la ruvidezza del corpo) che costituisce la caratteristica ineguagliabile della poesia di Ritsos.
Mi fermo qui. Dedico quanto ho scritto alla ragazza sconosciuta che molti anni fa incontrai sul treno mentre tornavo dall’aver seguito la rassegna «Città Spettacolo» di Benevento. Sullo stesso treno avevo incontrato anche Daniele Spini, che era stato per qualche anno il critico musicale del «Mattino». E quando finii a parlare con lui dell’epopea tragica e gloriosa dei partigiani comunisti greci, mi accorsi che quella ragazza, seduta di fronte a me dall’altro lato del corridoio, sollevava sempre più spesso gli occhi dall’«Unità» che stava leggendo e si metteva ad ascoltare. Poi, all’improvviso, abbandonò il giornale sulle ginocchia e scoppiò a piangere. Restai sconcertato, non sapevo che dire. Disse qualcosa la ragazza, appena riuscì a fermare le lacrime: «È bello che ci siano persone come lei, che ancora raccontano queste storie. Deve continuare a raccontarle».
Lo faccio, come si vede. E ringrazio Elena Arvigo per avermi dato l’occasione di farlo ancora una volta. La ringrazio anche a nome dei miei morti, i cari e terribili fantasmi che non smettono, neppure un istante, di costringermi a ricordare.

Enrico Fiore

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2 risposte a Elena, una luce che si spegne

  1. Paolo Gabriellini scrive:

    Carissimo Enrico,
    finisco ora di leggere il suo commovente articolo e, nel professarmi suo fedelissimo lettore, quasi sempre del tutto allineato con il suo pensiero e il suo gusto, trovo giusto esprime una perplessità sull’allestimento di “Elena” della Arvigo, attrice di grande sensibilità e bravura, appena visto all’Argot. Se, infatti, nel mettere in scena il poemetto di Ritsos la Arvigo regista secondo me ha fatto un deciso passo avanti rispetto a certe rigidità delle sue precedenti prove (sempre molto schematiche e visivamente “ingabbiate”), forse la Arvigo interprete, con la scelta di un registro beffardo e distante, si è messa su un gradino inferiore rispetto al passato, raggelando il pathos e frapponendo tra lei e il pubblico un diaframma comunicativo che ha impedito quell’idem sentire, la totale identificazione che, in altre occasioni (“Psicosi 4,48”, su tutti), aveva costituito la cifra della sua arte. Lo richiedeva il testo, si obietterà, la scelta registica era logica e motivata. Vero: ma alla fine io non sono entrato nella casa di Elena, partecipe del suo dolore raggrumato, ma ne sbirciavo i comportamenti, come un etologo. Da lontano.
    Paolo Gabriellini

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Paolo,
    innanzitutto grazie della sua attenzione e della sua fedeltà di lettore. E per quanto riguarda la riserva che manifesta circa la prova d’attrice della Arvigo, mi sembra di poter risponderle, in sintesi, che lei si è premurata di non cadere nelle sabbie mobili della retorica. In ciò dimostrandosi fedele a Ritsos, la cui preoccupazione massima fu quella di spogliare i miti classici di ogni orpello.
    Enrico Fiore

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