Una Signorina Giulia brasiliana
che si trova alle prese col razzismo

Julia Bernat e Rodrigo dos Santos in una scena di «Julia»

Julia Bernat e Rodrigo dos Santos in una scena di «Julia»

VENEZIA – A giugno, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, venne presentato dalla compagnia Vueltas Bravas un allestimento de «La signorina Giulia» di Strindberg che, per la regia di Lorenzo Montanini, trasferiva la vicenda in Colombia. Ed esattamente negli stessi giorni lo Stabile di Napoli e il Festival Santiago a Mil presentarono la versione dell’atto unico in questione firmata dal cileno Cristián Plana. E adesso, nell’ambito della Biennale Teatro, la compagnia Vértice de Teatro ha presentato un allestimento de «La signorina Giulia» che, per la regia di Christiane Jatahy, trasferisce la vicenda in Brasile.
Poiché non è possibile credere in semplici coincidenze, occorre chiedersi il motivo di tanto interesse per quell’atto unico, oltretutto datato 1888, da parte dei teatranti latino-americani. E mi sembra che tale motivo risieda nella forte vicinanza del tema centrale e decisivo de «La signorina Giulia» alla situazione di stallo che troppo spesso il Sud America ha scontato e continua a scontare, fra slanci rivoluzionari e derive dittatoriali, mitologie populistiche e cinismi oligarchici, cartelli della droga e multinazionali del petrolio, sogni di modernità e folclore onnivoro.
Infatti, giova ricordare che non a caso Strindberg definì il suo atto unico «tragedia naturalistica»: giacché qui (e forse per la prima volta nella storia del teatro contemporaneo) s’invera l’impossibilità della tragedia tout court. E la tragedia è impossibile perché impossibili sono i conflitti etici fra quei personaggi condannati in partenza, e inesorabilmente, alla solitudine dell’esistenza. A loro resta soltanto il furore di un sesso amaro e occasionale. E in fondo è perfettamente prevedibile – e d’altronde ce ne aveva dato un esplicito segnale la decapitazione del canarino – il colpo di rasoio con cui Julie si taglierà la gola dopo essersi data al servo Jean nella cupa e allusiva notte di San Giovanni.
Per questo Ingmar Bergman, nello splendido allestimento de «La signorina Giulia» che offrì nel 1986 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, recuperò le battute del dramma, cancellate fin dalle primissime rappresentazioni, che parlano dello sfregio sul viso inferto col frustino, alla protagonista, da un fidanzato stanco del gioco perverso, una sorta di dressage erotico, a cui lei lo sottoponeva davanti alle scuderie. Quello sfregio andava necessariamente ripescato, come il segno – tangibile e simbolico insieme – di una «predestinazione» che non lascia scampo ai personaggi e, con essi, a un’«azione» di tipo tradizionale.
Dunque, fa benissimo, Christiane Jatahy, a prestare la massima attenzione ai corpi di Julie e di Jean (che nel suo adattamento, intitolato semplicemente «Julia», si chiama Jelson) per mezzo di una videocamera che ne proietta anche i particolari minimi, ingigantendoli, sul grande schermo utilizzato come fondale. Tanto che di quei corpi ci viene rivelata persino la storia, a partire da quando Julia bambina e Jelson giocavano a pallone sul prato di casa. E risulta estremamente significativo, in proposito, il fatto che il cameraman sia sempre in vista, a tratti, per giunta, dando disposizioni agli attori: è, nello stesso tempo, un secondo regista in scena e l’equivalente dell’operatore in nero che manovra i burattini nel Bunraku giapponese.
Non si poteva rendere meglio l’impossibilità di decidere dei personaggi in campo. Ma, ciò detto, mi tocca osservare che, però, siamo di fronte a uno spettacolo strano, nel senso che risulta per certi versi contraddittorio o, addirittura, incomprensibile.
Per cominciare, l’adattamento della Jatahy dichiara senza mezzi termini che il disperato rimorso e la paura delle conseguenze da cui vien presa Julia dopo essersi data a Jelson dipendono, più che da una questione di classe (appunto lo scarto sociale esistente fra la padrona e il servo), dal fatto che lui è nero. E d’accordo, Christiane Jatahy è brasiliana. Ma, a quanto ne sappiamo noi, in una società da sempre pacificamente e felicemente multirazziale come quella brasiliana non dovrebb’essere un problema il sesso fra una donna bianca e un uomo di colore.
Inoltre, verso la fine dello spettacolo c’è stato, a Venezia, un vero e proprio (e imprevedibile e incongruo) intermezzo comico: l’attrice che interpretava Julia è scesa dal palcoscenico ed è fuggita all’esterno del teatro Piccolo Arsenale, inseguita in Campo della Tana dal cameraman che continuava a riprenderla (e a rimandarcene le immagini in teatro) sinanche fra gli avventori ignari e basiti di un ristorante all’aperto. E infine, nel momento culminante del dramma, la stessa attrice, con un coltello in mano, dice rivolta al pubblico: «Nella pièce originale di Strindberg lei (Julia, n.d.r.) se ne va e si ammazza. E ora? E io?».
Parrebbe il preludio a un finale aperto. E invece, subito dopo vediamo sullo schermo le immagini confuse di Julia che affonda in un’acqua tinta di sangue. Non resta che annotare la prova corretta che, nei limiti dei ruoli così delineati, forniscono gl’interpreti: Julia Bernat (Julia), Rodrigo dos Santos (Jelson), Paulo Camacho (il cameraman) e Tatiana Tiburcio (in video).

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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