Quattro celle in un carcere
che è metafora della vita

Morena Rastelli in una scena di «Crave» (foto di Pepe Russo)

Morena Rastelli in una scena di «Crave» (foto di Pepe Russo)

Lo sappiamo, o dovremmo saperlo: il tema centrale dell’urticante teatro di Sarah Kane è lo scarto fra le parole, sentite come il perenne (e perennemente fallimentare) tentativo di giustificare l’esistenza, e il corpo, sentito come l’unico riscontro possibile di una verità purchessia. E ne costituisce un’eclatante dimostrazione «Crave», il testo andato in scena, non a caso, nel ’98, un anno prima che la Kane si uccidesse. La sua battuta-chiave recita, infatti: «Non ho musica, Cristo vorrei avere musica e ho soltanto parole».
Perciò il più illustre ospite straniero del Napoli Teatro Festival Italia, Thomas Ostermeier, mise in scena «Crave» (il titolo vale fame, bisogno, sete, smania, desiderio di…) come un vero e proprio concerto, con i quattro personaggi che, isolati in cima ad altrettanti parallelepipedi, si esibivano – voci diverse di un solo amore sconfitto – ciascuno dietro un microfono. Giacché quei quattro personaggi anonimi (A, B, C, M) sono autentiche monadi, nient’altro che le facce intercambiabili di una stessa persona: naturalmente l’autrice, che in effetti, col suicidio, mise il punto fermo conclusivo, l’unico ammissibile, alla propria scrittura.
Invece Pierpaolo Sepe, regista dell’allestimento di «Crave» che si replica ancora oggi nella Sala Assoli, oscilla fra l’ovvio, il già visto e il contraddittorio.
La scena di Francesco Ghisu (un’alta rete davanti, il cortile per l’ora d’aria nel mezzo e quattro celle con le finestre chiuse da inferriate sul fondo) rappresenta un carcere che, manco a dirlo, vuol essere la metafora della vita; le quattro celle sul fondo richiamano le «case» dell’allestimento di «Crave» firmato nel 2003 da Barbara Nativi, colei che ha tradotto e portato in Italia la scabra drammaturgia della Kane; e infine, a fronte del glaciale dividersi, nel testo, di tutte le categorie dell’orrore esistenziale (dall’incesto all’anoressia, dalla tossicodipendenza alla pedofilia) tra i poli opposti di fulminei dialoghi e battute tematiche, non a caso reiterati, quali «Cosa vuoi? – Morire» e, per l’appunto, «Se arrivasse l’amore», qui si urla, si percuote quella rete col palmo delle mani, le ci si arrampica sopra e si tenta di scavalcarla. Laddove il suicidio dimostra che per Sarah Kane non esisteva più nemmeno il sogno della rivolta e della fuga.
Per di più, accade che i quattro personaggi si abbraccino e che, ad un certo punto, si mettano completamente nudi per poi rivestirsi scambiandosi i panni: col che Sepe compie un gioco di prestigio davvero mirabolante, fondendo in un tutto unico l’ovvio, il contraddittorio e il già visto citati. Dal momento che – non possiamo, ahinoi, dimenticarlo – nel 2001, presentando nell’ambito di «Benevento Città Spettacolo» un suo allestimento di «4:48 psychosis», sempre della Kane, c’inflisse un quarto d’ora di nudo integrale di Monica Nappo.
Intendiamoci, lo spettacolo è tecnicamente accurato. E bravi sono gl’interpreti Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra e Morena Rastelli. Ma a che pro? Io penso che bisogni accostarsi a «Crave» con pudore e tenerezza. E avvertendo un senso di colpa. Quello di Sarah Kane è stato ciò che fu, nelle parole di Pratolini, il suicidio del nostro caro, indimenticabile Luigi Incoronato: «un grido d’aiuto troppo tardi ascoltato».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 9 giugno 2015)

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