Vogliamo parlare un po’ del pubblico?

Il Teatro Bellini

Il Teatro Bellini

Dovrebb’essere il convitato d’onore alla mensa imbandita da quanti – addetti ai lavori, intellettuali di pronto impiego e i soliti imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti – continuano a discettare sul teatro a Napoli. E invece è stato, ed è, condannato a un silenzio tanto più assordante in quanto il soggetto in questione rappresenta il cardine imprescindibile su cui ruota (e sotto il profilo culturale e dal punto di vista economico ed organizzativo) l’intero apparato del settore.
Parlo del pubblico. Quanti sono, oggi, gli spettatori teatrali abituali? Basta, il loro numero, a giustificare quello dei teatri in attività? E chi sono questi spettatori: a quali fasce sociali appartengono, quali sono la loro età e il loro livello d’istruzione medi, che genere di spettacoli preferiscono vedere? E quali sono, più in generale, le ragioni che li spingono ad andare a teatro? Ed esiste (e, se esiste, di che tipo è) un rapporto diretto fra loro e i cartelloni che gli propongono, stagione dopo stagione, i vari teatri cittadini?
Come si vede, ho elencato solo i principali fra gl’interrogativi disattesi sul tappeto. E provo, adesso, a fornire qualche risposta che s’allontani dalle frasi proverbiali, dalle illusioni, dalle attese messianiche, dalle interpretazioni di comodo e s’attesti, invece, sui dati di fatto, verificabili, forniti dalla realtà e – per me, che sono uno spettatore di professione da oltre cinquant’anni – corroborati da un’esperienza quotidiana vissuta sera per sera, messinscena per messinscena, teatro per teatro.
Innanzitutto, c’è da rilevare la profonda mutazione, addirittura antropologica, avvenuta nel pubblico rispetto nemmeno a molti anni fa, diciamo una trentina. Oggi si vedono a teatro numerosissime persone (in genere di una certa età, e in parecchi casi avanzata) che con il teatro non hanno consuetudine alcuna e che lo frequentano per tutti i motivi possibili e immaginabili tranne l’interesse specifico per il teatro medesimo. Lo si evince dai loro comportamenti e, specialmente, dai discorsi che fanno prima che inizi lo spettacolo. Spesso non sanno neppure che cosa sono venuti a vedere.

Il Teatro Politeama

Il Teatro Politeama

Una volta, poniamo, c’era il Politeama gestito dalla famiglia Scarano, l’autentico tempio della prosa a Napoli: vi passavano tutte le maggiori compagnie di giro, tutti i registi e gli attori nazionali di alto rango e tutti gli allestimenti di rilievo prodotti in Italia; e lo affollava la migliore borghesia cittadina, quella cosiddetta illuminata che concorrevano a formare professionisti (medici, avvocati, industriali) acculturati e, se non altro, sufficientemente informati circa l’autore, il testo e gl’interpreti che di volta in volta gli si presentavano.
Ma ora – e siamo di fronte a un fatto assolutamente emblematico – il Politeama è chiuso da anni. E, se ci spostiamo sul versante del pubblico per così dire intellettuale e impegnato, altrettanto emblematico risulta il recente passaggio di mano del Nuovo da Igina Di Napoli e Angelo Montella, che ne avevano fatto il baluardo napoletano del teatro di sperimentazione (e comunque innovativo e in sintonia coi tempi), ad Alfredo Balsamo, un impresario bravo che, però, certamente non stravede per gli spettacoli di ricerca.

Il Teatro Nuovo

Il Teatro Nuovo

Il risultato è che oggi, a Napoli, mancano di punti di riferimento precisi e di profilo notevole sia il pubblico borghese acculturato sia il pubblico intellettuale impegnato. E la controprova sta da un lato nel fallimento più o meno immediato di gestioni private (leggi quelle dell’Acacia e del Troisi) che avevano tentato di colmare le lacune nell’offerta di produzioni commerciali di estrazione nazionale e, dall’altro, nel frammentarsi dell’offerta del teatro di sperimentazione in una miriade di piccoli spazi che vivono, in tutta evidenza, di una vita grama e incapace d’innescare un processo di generale crescita sul piano dell’informazione e del gusto.
Qualcosa, e torno ancora una volta a riconoscergliene il merito, sta facendo in tal senso il Bellini, che da qualche anno propone i migliori (per la qualità e la varietà delle proposte) cartelloni di Napoli. Mentre il Teatro Stabile resta ingabbiato in una programmazione tutto sommato di stampo tradizionale e autarchico. E non è nemmeno colpa al cento per cento di Luca De Fusco. È colpa sostanzialmente della cosiddetta riforma del teatro targata Franceschini, che al nostro Stabile ha, sì, riconosciuto la qualifica di Teatro Nazionale, ma contemporaneamente lo obbliga, giusto in dipendenza dei robusti lacci burocratici previsti da quella qualifica, a rinunciare – in pratica – alle tournée e, stante l’esorbitante numero di repliche delle proprie produzioni da effettuare sul territorio, a tener d’occhio essenzialmente il livello del consumo di massa sia per quanto riguarda i titoli che gli allestimenti.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Commenti. Contrassegna il permalink.

4 risposte a Vogliamo parlare un po’ del pubblico?

  1. Carlo Cerciello scrive:

    Caro Enrico, ti mando questa mia nota, scritta nella notte, una di queste notti estive in cui il caldo e il dispiacere per la recente e inspiegabile cancellazione ministeriale del Teatro Elicantropo, non mi fanno dormire. Spero, così, di dare un contributo di “sangue” (sanguigno) al tuo discorso sul pubblico.

    DEI SINISTRI E CONTRADDITTORI MISTERI MINISTERIALI INTORNO ALLA COSIDDETTA “FORMAZIONE DEL PUBBLICO”

    Cosa si intende per formazione del pubblico? Come si concilia questa affermazione di principio, con una legge dove il pubblico appare così ampiamente individuato, da essere inserito come obiettivo numerico per l’assegnazione dei benefici della legge stessa? E se fosse una cosa seria, cosa si dovrebbe fare per dare concreta attuazione ad un reale processo di formazione culturale nel nostro Paese?

    Per il nostro Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, nonché del Turismo, la risposta si traduce in un articolo inserito dentro un decreto legge, l’art 43, una delle tante caselle, inventate per dare alloggio a qualche sfrattato dagli altri articoli della nuova legge dello spettacolo o come trabocchetto da consigliare a chi si intendesse escludere definitivamente dalla lotteria contributiva nazionale (v Teatro Elicantropo).

    In linea di principio, si tratterebbe, invece, di qualcosa di molto serio.

    Prima che il Teatro Pubblico diventasse un feudo per l’esercizio del potere di direttori, a loro volta, diretta emanazione della partitocrazia nostrana, prima che la programmazione artistica rispondesse agli esclusivi interessi scambisti di fette di clientela statalizzata e ministerialmente metabolizzata e inclusa nella casella generale definita “teatro dal vivo”, prima che il “teatro” diventasse la statale “fabbrica dello spettacolo”, due 25enni italiani di belle speranze, che si chiamavano Strehler e Grassi e un signore a Parigi che si chiamava Vilar, si posero il problema di trasformare il “teatro” in servizio pubblico interclassista, in centro di cultura, di riconsiderare il fenomeno teatrale come processo e non come prodotto.
    Si resero conto che occorreva rimettere lo spettatore al centro di tale processo, che occorreva trasformarlo in protagonista partecipe, non passivo, che occorreva formare uno spettatore critico e consapevole, non solo dal punto di vista teatrale e culturale, ma anche sociale e civile, che occorreva porre in essere strategie e modalità organizzative atte ad allargare e differenziare il pubblico, nonché a coinvolgerlo attivamente nella vita del teatro e che questo allargamento e coinvolgimento del pubblico dovesse andare di pari passo con la qualità e la ricerca artistica. Si trattava di passare dalla vecchia, oggi riformata e dunque nuova, concezione del teatro come centro di produzione e programmazione di spettacoli, a quella di epicentro di una più ampia attività culturale. Il teatro divenne luogo di festa e di incontro fra spettatori e spettatori, spettatori e organizzatori, spettatori e artisti, rendendo attiva la volontà di familiarizzare il teatro, di renderlo “casa” per gli spettatori.
    Questo passaggio che ho fatto mio, tratto da NUOVO TEATRO E FORMAZIONE DELLO SPETTATORE di Elisa Piselli, ci mostra in tutta la sua tristezza, quanto siamo lontani dai criteri pseudo informatori della nuova legge di “franceschiello”.

    Ma senza dover andare tanto lontano nel tempo, negli atti del CONVEGNO DI RETE CRITICA SULLA FORMAZIONE DEL PUBBLICO al Kilowatt Festival di San Sepolcro, troviamo alcuni suggerimenti pratici per la formazione del pubblico, estratti dagli atti in oggetto da Carlotta Tringali, come quello di promuovere laboratori teatrali per non-professionisti (per far conoscere cosa può accadere a teatro, come funziona il lavoro, cos’è un vero spettacolo); quello di promuovere esperienze per diffondere un’altra concezione di danza sin dalla tenera età come fa il progetto Vita Nova voluto da Virgilio Sieni per la Biennale Danza (portare i bambini a contatto con modalità diverse di espressione del corpo); quello di offrire lezioni propedeutiche di teatro (teoriche) ai ragazzi delle superiori prima di mostrare loro uno spettacolo (come le esperienze di Stratagemmi a Milano, AMAT con Scuola di Platea e Altre Velocità con ERT); quello di fare incontrare la danza e il teatro ai bambini fin dalla tenera età (con progetti specifici come CorpoGiochi Off di Monica Francia, o con degli spettacoli di teatro sempre con professionisti); quello di rendere partecipe una comunità all’esperienza teatrale (Kilowatt); quello di inserire nel programma didattico delle università che si occupano di teatro la visione di spettacoli (purtroppo non sempre chi studia la materia si reca con assiduità a teatro) come fa Laura Gemini all’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino; o come quello di creare contesti adatti e consoni per presentare alcuni lavori di teatro o danza contemporanei di qualità, ma che risultano di difficile accesso a un pubblico non avvezzo al contemporaneo (v. incontri di approfondimento, di dialogo con le compagnie).

    C’è, in verità, un vecchio articolo di Oliviero Ponte Di Pino, una delle menti nobili della critica italiana, uno dei maggiori artefici e propugnatori delle Buone Pratiche del Teatro, che per paradosso, o forse, per contrappasso, è, pure, parte di quella Commissione di Esperti che ha redatto i criteri informativi dell’alessaultima riforma targata Nastasi-Franceschini, articolo che sull’argomento in questione recita così:

    ”Ancora una volta, bisogna ripartire da quella frase, per capire che cosa significhi teatro pubblico, e come sia cambiato in questi decenni. Parlare di “Un teatro d’arte per tutti”, lo slogan da cui nacque nel 1948 il Piccolo Teatro di Milano, significava in primo luogo garantire e promuovere l’accesso al teatro – a un teatro di qualità – a coloro che ne erano esclusi. Di qui l’impegno per portare a teatro lavoratori e studenti, in un grande sforzo di organizzazione del pubblico. Negli anni Settanta, l’impegno coinvolse il territorio: le periferie urbane (i “teatri quartiere”) ma anche città e borghi dove il teatro non arrivava da anni (con la creazione dei circuiti). Questa impostazione ha diversi presupposti, che giustificano e anzi rendono opportuno e necessario il sostegno pubblico alla cultura. In primo luogo, il principio che cultura (e dunque anche il teatro) costituisce un inalienabile diritto dei cittadini, sulla base dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”. Perciò il teatro rientra nell’ambito del servizio pubblico “come il gas!” (Jean Vilar) o “come il tram!” (Paolo Grassi). Infine, la convinzione che la frequentazione del teatro – e in generale la familiarità con la cultura – possa fare di noi dei cittadini migliori, più consapevoli e solidali, e dunque la diffusione dell’arte e della cultura possa avere un effetto positivo sull’intera società. In questa prospettiva, tra i compiti e gli obiettivi del teatro pubblico deve rientrare anche la formazione degli spettatori: da un lato attraverso le scelte di produzione e di programmazione, dall’altro con attività specifiche. Oggi sarebbe necessario rivalutare, sulla base di questi parametri, la salute del teatro pubblico italiano: un teatro pubblico “allargato”, che non comprenda solo gli stabili pubblici che ne sono il fulcro, ma l’intero sistema, che comprende anche stabili privati, teatri di innovazione, circuiti, e varie sperimentazione sul fronte delle residenze. In questi decenni il pubblico è senz’altro cambiato molto: non è più quello “nazional-popolare” che volevano “catturare” Grassi e Strehler, ma è “esploso” in una molteplicità di pubblici frammentati. Questa frammentazione riflette la profonda trasformazione della società: non più una “polis” che si aggrega (o che si vorrebbe aggregare) intorno a valori comuni, ma un assemblaggio di target (perché siamo tutti consumatori, anche di teatro), con valori, gusti e aspirazioni assai variegati, in una costante dialettica tra omologazione e spinte individualistiche. Stanno velocemente cambiando anche gli strumenti per raggiungere lo spettatore: non più l’intervento nei luoghi di aggregazione (fabbriche e scuole) e di residenza (quartieri e territorio), non più (o non solo) la tradizionale pubblicità top-down. Oggi assumono un peso crescente il marketing in rete e i social networks, con una comunicazione sempre più personalizzata e coinvolgente. Molti teatri pubblici, è innegabile, non sono riusciti nemmeno a soddisfare le aspirazioni originarie . Anche perché troppo spesso la “polis” si è ridotta a meccanismi lottizzatori, con i partiti a imporre uomini e programmi. In generale, la scena politica appare frammentata e conflittuale, una poltiglia incapace di dare identità e obiettivi alla collettività: il teatro non può far altro che riflettere (e anticipare e amplificare) queste tendenze. In questa prospettiva, per chi gestisce molti teatri il pubblico può ridursi a un dato di fatto, garantito da una situazione di monopolio sul territorio (ovvero finché non si crea la necessaria concorrenza). Meglio non turbarlo, o peggio scandalizzarlo, e mantenerlo tranquillo nelle sue certezze. Al massimo, se lo sbigliettamento cala troppo, basta rimpinguare il cartellone con qualche nome di richiamo, meglio se televisivo, cinematografico o canzonettaro. Alla peggio, si può contare su rendite di posizione che garantiscono la sopravvivenza di un “teatro pubblico senza pubblico”. In altre situazioni – soprattutto nelle città più grandi, e in generale nei territori che sono riusciti a strutturare un efficace “sistema teatrale” – i diversi teatri si sono attrezzati per soddisfare fasce di pubblico differenziate per reddito, gusti, fasce d’età… E’ una razionalizzazione del mercato: se ben gestito, dovrebbe consentire di “perdere meno utenza possibile”anche in tempi di crisi. Pesa anche l’enfasi sul mercato, sulla cultura d’impresa, che ha caratterizzato in questi decenni anche l’ambito culturale, con effetti contraddittori. Come pure riecheggia la giusta sottolineatura delle ricadute economiche, occupazionali e turistiche dell’investimento in cultura (che tuttavia in Italia non sono state ancora comprese: basti guardare i programmi elettorali e l’atteggiamento di troppi amministratori). Certamente esistono realtà che hanno affrontato il problema del pubblico in termini costruttivi, offrendo strumenti di formazione, crescita culturale e dibattito. Ma non sono molte. Basta guardare quali e quanti sono i teatri che si impegnano in attività che vanno oltre la “semplice” produzione e programmazione di spettacoli e investono strategicamente nella formazione del pubblico (in termini non puramente pubblicitari). Sono ancora meno le realtà che hanno provato a innescare meccanismi di partecipazione e condivisione. Il movimento dei teatri occupati è anche l’effetto di questo bisogno, che il sistema dei teatri pubblici non è riuscito a soddisfare (e non a caso ci sono meno teatri occupati dove il sistema teatrale funziona meglio). Tuttavia è proprio questa la direzione in cui dovrebbero andare le arti, almeno a giudicare dalla parola d’ordine del Creative Europe Programme 2014-2020, “Audience development”. Lo “sviluppo del pubblico”, o meglio l’“evoluzione dello spettatore”, è “un processo strategico, dinamico e interattivo che ha l’obiettivo di rendere le arti più ampiamente accessibili”, attraverso “il coinvolgimento di individui e comunità nell’esperienza, nel piacere e nella partecipazione, e nella valutazione”, attraverso gli strumenti attualmente a disposizione degli operatori culturali, dal digitale al volontariato, dalla co-creazione alla partnership. Nelle intenzioni, questa apertura dovrebbe portare benefici culturali, sociali ed economici. Ma quanti sono in Italia i teatri culturalmente attrezzati per cogliere questa opportunità? E la nostra società, preda di un’onda regressiva e tuttavia ricca di fermenti culturali e modalità di aggregazione, è in grado di farsi coinvolgere e “riattivare”? (…) Lo “sviluppo del pubblico”, o meglio l’“evoluzione dello spettatore”, è “un processo strategico, dinamico e interattivo che ha l’obiettivo di rendere le arti più ampiamente accessibili”, attraverso “il coinvolgimento di individui e comunità nell’esperienza, nel piacere e nella partecipazione, e nella valutazione”, attraverso gli strumenti attualmente a disposizione degli operatori culturali, dal digitale al volontariato, dalla co-creazione alla partnership. Nelle intenzioni, questa apertura dovrebbe portare benefici culturali, sociali ed economici.(…)”…
    Oliviero Ponte Di Pino (docente Fondamenti di teatro moderno e contemporaneo)

    Ora, dico io, chi mai potrebbe essere in disaccordo con una simile attenta e approfondita disamina dell’argomento? Ma, ecco come il legislatore e gli esperti hanno inteso tradurre in prassi normativa, l’argomento fin qui esaminato e denominato dal burocratese teatrale stesso “Formazione del pubblico”:
    A. PROGETTO TRIENNALE: TRIENNIO 2015-2017 – Ambito/settore : Teatro/(Art. 43) Azioni trasversali – Promozione – Progetti di formazione del pubblico;
    Fenomeni per valutazione qualitativa:
    1. Capacità di reperire risorse da enti locali, enti pubblici, fondazioni bancarie, ecc.;
    2. Qualificazione ed esperienza professionale della direzione del progetto e dei mediatori coinvolti;
    3. Sostenibilità e congruità del progetto;
    4. Valore innovativo e differenziale rispetto a strategie di marketing;
    5. Capacità di sviluppare il confronto con analoghe esperienze e costruire buone pratiche;
    6. Continuità e riconoscibilità nazionale degli interventi, anche da parte di soggetti esterni al sistema dello spettacolo dal vivo;
    7. Capacità di sviluppare azioni di partenariato con soggetti istituzionali;
    8. Capacità di incrementare il numero degli spettatori presso target sociali differenziati
    9. Capacità di costruire percorsi di formazione alla visione degli spettacoli;
    10. Capacità di prevedere forme di monitoraggio e valutazione dei risultati dei progetti.

    Ecco, in questi 10 punti, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo di questo Paese, ha sintetizzato le sue aspettative di crescita relativamente al pubblico e alla sua formazione.
    Risuonano, dunque, alla luce di quanto è accaduto, ferali e presaghe di una resa culturale senza condizioni, le parole di Oliviero Ponte Di Pino, riportate prima e ripetute di seguito in basso:

    (…)Anche perché troppo spesso la “polis” si è ridotta a meccanismi lottizzatori, con i partiti a imporre uomini e programmi. In generale, la scena politica appare frammentata e conflittuale, una poltiglia incapace di dare identità e obiettivi alla collettività: il teatro non può far altro che riflettere (e anticipare e amplificare) queste tendenze. In questa prospettiva, per chi gestisce molti teatri il pubblico può ridursi a un dato di fatto, garantito da una situazione di monopolio sul territorio (ovvero finché non si crea la necessaria concorrenza). Meglio non turbarlo, o peggio scandalizzarlo, e mantenerlo tranquillo nelle sue certezze. Al massimo, se lo sbigliettamento cala troppo, basta rimpinguare il cartellone con qualche nome di richiamo, meglio se televisivo, cinematografico o canzonettaro. Alla peggio, si può contare su rendite di posizione che garantiscono la sopravvivenza di un “teatro pubblico senza pubblico”(…) O.P.D.P
    Carlo Cerciello

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Carlo,
    leggo solo adesso la tua puntualissima nota, perché ho trascorso il Ferragosto in una località del Beneventano non coperta da Internet. Naturalmente, sono d’accordo, in tutto e per tutto, con quanto scrivi e con quanto ha scritto Oliviero Ponte di Pino, in specie a proposito del “teatro pubblico senza pubblico”. Ne parlo da anni. E l’argomento appare di una straordinaria attualità, anche alla luce dei recenti tagli dei contributi statali ai teatranti napoletani. Ma nel merito mi permetto una sommessa obiezione. Fra gli alti lai levati nella circostanza dai teatranti napoletani, ci sono anche quelli levati da teatri sovvenzionati con i soldi pubblici e che da sempre il pubblico (mi si passi il gioco di parole) non ce l’hanno, o ce l’hanno in misura sostanzialmente non significativa. Si tratta di teatri in cui mi son trovato ad essere, e più di una volta, l’unico spettatore presente. E allora mi chiedo per quale motivo dovrebbero essere elargiti a quei teatri i quattrini provenienti dalle nostre tasche. Infatti, delle due l’una: o al pubblico di oggi della cultura (e dunque del teatro) non importa niente o in quei teatri non si fa cultura (e dunque teatro). E s’intende, adopero i termini “cultura” e “teatro” nel loro senso pieno e nobile.
    Enrico Fiore

  3. Carlo Cerciello scrive:

    Caro Enrico,
    è esattamente e amaramente come dici tu, e sempre meno ce ne sarà di pubblico che abbia voglia di “teatro”: perché è in atto da tempo una mistificazione intorno a questo strano contenitore multiuso che è diventato il cosiddetto “teatro”, mistificazione che oggi, attraverso questo decreto ministeriale, palesa tutto il suo cinico contenuto politico. Franceschini non ha fatto altro che portare a termine quell’opera di mistificazione culturale che Pasolini denunciò prima di qualsiasi altro, quella cioè di ridurre ogni modello culturale di “progresso” ad un semplificato, meschino e inefficace modello di “sviluppo” liberista.
    Tutto ciò che disturbi il manovratore, dunque, va eliminato dal circuito ufficiale, dagli apparati dello Stato e messo nella condizione di agire nella clandestinità, in modo che la gente riconosca esclusivamente i modelli sub culturali proposti dal capitalismo liberista.
    Del resto, basta esaminare attentamente quello che è accaduto con questo decreto ministeriale, in cui l’idea stessa di “teatro” è totalmente rimessa in discussione, a favore di una produttività scriteriata, sostenibile solo con la spettacolarizzazione, cioè con l’estetizzazione forzata dell’elemento rituale, sia esso strettamente testuale che scenico, fino al suo totale annullamento.
    Prendiamo ad esempio la palese contraddizione di questi autentici peracottari di voler formare un pubblico, da un lato ammettendo che oggi tale pubblico non esiste e dall’altro prefissando proprio nel pubblico il criterio numerico principale per l’assegnazione dei contributi.
    Allora ti chiedi, ma questi ci fanno o ci sono?
    E fintanto che parliamo di uno come Nastasi, magari te lo spieghi pure, ma quando pensi ai tre esperti della commissione, persone autenticamente colte, che si sono prestate a questo sporco gioco, allora capisci che in questa italietta andreottiana, “intellighentia” e “massoneria” sono parole sempre più simili.
    Naturalmente, alla faccia del Ministero e di tutti i tecnocrati di questa Italietta, il piccolo Elicantropo non chiude i battenti, barricadero era e barricadero resta! Smettere equivarrebbe ad ammettere che i loro algoritmi valgano più delle nostre storie, della nostra dignità, del nostro lavoro, delle nostre stesse vite. Occorre, invece, battersi fino alla fine – perché non la vincano loro, perché il loro modello politico di sub cultura liberista e massonica appaia alla gente comune in tutta la sua patente e sfrontata arroganza e inutilità – in tutte le sedi e con ogni mezzo possibile, impegnarsi per l’informazione e la formazione del pubblico, non quella prevista dal loro miserabile art. 43, ma sulla base dell’art. 9 della Costituzione, per far capire alla gente che i padri di quella Costituzione avevano preso ampie precauzioni contro il baricchismo incompetente dei servi e dei giullari e che non basta conoscere un po’ di storia del teatro o riempirsi le fauci di belle sonorità dense di “buone pratiche”, per capire quella “mediazione” costante tra terra e cielo che si chiama “teatro”.
    E come disse Moscato all’Elicantropo, “viva la saittella!!”
    Ti abbraccio, mio stimato.
    Carlo Cerciello

  4. Enrico Fiore scrive:

    Carissimo Carlo,
    naturalmente ti ricambio l’abbraccio e la stima. E sia la migliore risposta a quanto affermi la constatazione che mi hai commosso: perché la tua sacrosanta indignazione e la tua volontà di ribellarti e di non mollare mi riportano a quella parte della mia vita che considero più autentica e di cui ho posto alla fine del mio ritratto su questo sito due documenti fotografici. Sono fotografie stinte dagli anni, ma tornano a brillare proprio grazie alla tua indignazione e alla tua volontà di ribellarti e di non mollare. Fatte le debite differenze fra la tensione rivoluzionaria e la pratica del teatro, nel tempo del mio tramonto mi sembra, insomma, che la lotta di allora non sia stata inutile. Ha lasciato delle tracce che ancora germogliano, sia pure su altri terreni. E di questo sono grato, a te e a tutti i “felici pochi” come te.
    Enrico Fiore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *