«Le sorelle Macaluso» all’Opera dei Pupi

Un momento de «Le sorelle Macaluso» di Emma Dante

Un momento de «Le sorelle Macaluso» di Emma Dante

Ricordate la scena iniziale di «Carnezzeria», uno degli spettacoli che diedero la notorietà a Emma Dante? I fratelli Paride, Toruccio e Ignazio arrivavano dalla sala buia portando sulle spalle, come un cadavere, la sorella Nina vestita da sposa, con tanto di velo, strascico e bouquet. E per giunta era incinta, Nina. Ma aveva appiccicata sul pancione una croce cimiteriale.
Ebbene, lo stesso ossimoro (la compresenza della vita e della morte) connota anche «Le sorelle Macaluso», la nuova creazione dell’autrice e regista siciliana data in «prima» assoluta, al Mercadante, nell’ambito del progetto europeo «Città in scena». E infatti abbiamo qui un attacco molto simile a quello di «Carnezzeria»: dal nero del fondale sbuca il funerale di una di loro che costituisce per le sette sorelle del titolo – Pinuccia, Katia, Gina, Cetty, Lia, Maria e Antonella – l’innesco di un’esplosione continua di memorie e rimozioni, sogni e crudezze, abbracci e insulti, risate e pianti, danze ed epilessie – tutta la festa e tutto lo strazio dello stare nel mondo.
Lo scambio inesausto fra i vivi e i morti trova un esito decisivo nel fatto che, verso la fine, Maria adatta a sé («’Un paro ‘na picciottedda? T’ha fazzu ‘a piroetta?») le parole che prima aveva pronunciato al maschile il padre. Perché è sul piano del linguaggio (il linguaggio come «corpo verbale» di Sartre) che si determina il salto di qualità concettuale e poetico che – tornando alle origini – ha compiuto nella circostanza la Dante.
Questo microcosmo declinato al femminile invera il proprio statuto esistenziale attraverso l’innesto, sul magma ribollente di un palermitano e di un pugliese strettissimi, dell’italiano «ufficiale» adottato dalla madre: si tratta della formalizzazione (poiché, lo sappiamo, la lingua italiana nacque come convenzione) che imprigiona le individualità smarrite che qui s’aggrovigliano nel solo principio unificante possibile, appunto la maternità come sinonimo della vita. E non a caso, in una delle sequenze dello spettacolo più belle e importanti, è proprio lei, la madre, che (indossando una sottoveste, mettendosi il rossetto sulle labbra) stabilisce un’identità non solo con le figlie, ma addirittura con il marito: al quale dice che è «molto sexy» quando si scopre che anche lui, sotto la camicia, indossa una sottoveste.
Per di più, «Le sorelle Macaluso» è incastonato nella cornice dell’Opera dei Pupi, visto che il proscenio appare disegnato dagli scudi e dalle spade dei paladini e che in un classico duello fra questi ultimi si tramuta il corteo funebre dell’inizio. E dunque, la messinscena affonda le radici da un lato in una tradizione persino archetipica e, dall’altro, nella condizione ontologica a cui si lega la storia degli uomini: la morte non può mai essere separata dalla vita perché, inevitabilmente, noi siamo ciò che siamo stati.
Devo, a questo punto, citare tutti gli straordinari interpreti di questo spettacolo straordinario: Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi e Stéphanie Taillandier. Ma subito, poi, il pensiero corre alla rapinosa sequenza conclusiva, che a lungo ci resterà negli occhi e nel cuore.
Maria si spoglia e rimane completamente nuda, di ogni sovrastruttura mentale, ovviamente, come dei vestiti. E il bianco del tutù che poi indossa richiama il colore che nelle antiche culture contadine è il simbolo della morte, e la sua danza viene a poco a poco risucchiata dal nero del fondale. Ma quel lento sparire nel buio, però sempre danzando, significa anche il ritorno alla patria perduta del ventre materno. Significa, cioè, il destino della rinascita.

                                                                                                                                     Enrico Fiore

(«Il Mattino», 24 gennaio 2014)

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