Con Pippi Calzelunghe nella «Fattoria degli animali»

Alessandra Fabbri in un momento di «Mangiare e bere. Letame e morte»

Alessandra Fabbri in un momento di «Mangiare e bere. Letame e morte»

«Mangiare e bere. Letame e morte» – lo spettacolo di Davide Iodice che Interno 5 presenta nel Piccolo Bellini – mi fa venire in mente Jan Fabre. E non solo, ovviamente, a causa dell’assonanza esistente fra i cognomi dell’interprete, Alessandra Fabbri, e dell’artista belga. È che qui torna in campo un argomento capitale del teatro di Fabre: il tema dell’artista che muore a sé nel momento stesso della creazione, poiché, proprio a partire da quel momento, l’opera con cui s’identifica appartiene unicamente agli altri.
In questo senso Fabre, nell’omonimo spettacolo, definì l’artista «l’ange de la mort», «l’angelo della morte». E Alessandra Fabbri avrebbe tutto il diritto di far propria, perché l’invera alla lettera, l’affermazione («posso essere ogni animale») che ne «L’ange de la mort» pronunciava a un certo punto la danzatrice croata Ivana Jozic. Non a caso, del resto, il sottotitolo dello spettacolo recitava: «Monologo per un uomo, una donna o un ermafrodito». Eravamo alla frammentazione dell’Io, la stessa che si determina e deflagra nello spettacolo di Iodice.
Infatti, «Mangiare e bere. Letame e morte» – lo dico subito, appare inatteso, con la grazia di un timido miracolo, sul finire di una stagione per molti versi avvilente – consiste in un perenne (e sognante e bellicoso insieme) uscire dal ruolo dato per confondersi con l’altro da sé e, così, trovare la libertà nel fluire indifferenziato della vita. E tanto accade innanzitutto alle parole del testo, che sistematicamente «si trasformano» nei movimenti e nei gesti dell’interprete, ma, poi, anche all’interprete medesima.
La Fabbri, in breve, inizia con il racconto degli animali assieme ai quali vive in una casa della bassa emiliana e termina col «diventare» quegli animali, in una perfetta mimesi, poniamo, dell’operazione di pulirsi il corpo compiuta dalla pappagallina rimasta priva del compagno. E messasi completamente nuda, Alessandra, si fabbrica con l’argilla un pene che attacca sulla vagina (l’ermafrodito, appunto) e un naso alla Bacon (la dissoluzione della forma canonica) che inalbera mentre danza sulle punte e con tanto di scarpette di raso.
Immaginate, dunque, una Pippi Calzelunghe capitata ne «La fattoria degli animali» a orchestrare la zoomorfa rivolta orwelliana sotto specie, per l’appunto, di un eroico reinventarsi. E finisce, quest’alito di poesia, nel lieve, dolce passo a due in cui Alessandra conduce uno spettatore al quale ha incollato delle piume sulla faccia.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 10 aprile 2014)

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