I baffi di Nutella dell’Hitler di Latella

Uno dei più potenti mezzi espressivi è, in qualsiasi testo scritto, la sottolineatura per contrasto, l’evocare una cosa parlando della cosa ad essa opposta. E proprio questo mezzo costituisce il motore di «A.H.», l’acuto monologo di Federico Bellini e Antonio Latella in scena al Nuovo per la regia del secondo.
Gli argomenti sul tappeto sono il male e una delle sue incarnazioni emblematiche e proverbiali, il nazismo. Ma il nazismo non viene mai nominato, così come chi lo concepì e lo portò al potere, Adolf Hitler, si riduce alle iniziali dei propri nome e cognome assunte a mo’ di titolo. E anche sotto il profilo visivo, il Führer non si materializza che attraverso i baffi che l’attore protagonista si disegna con la nutella.
Invece, rispetto a questi semplici accenni alle manifestazioni della morte (la morte come ideologia e la morte come pratica), rilievo e dignità molto maggiori vengono concessi all’alto ed esaustivo inno alla Vita rappresentato dal primo libro della Bibbia, la Genesi. E dunque, non a caso Bellini e Latella ricordano che la frase iniziale della Torah recita: «Bereshìt barà Elohìm», «In principio Dio creò». Si tratta di bollare lo sterminio a oltranza esaltando, per l’appunto, ciò che ad esso è ontologicamente opposto, la nascita del Mondo.
Infatti, la battuta-chiave di questo Hitler suona: «Gesù Cristo era figlio dell’uomo, io sono il figlio dei morti». E si capisce, allora, perché – a fronte dell’infinita coralità della creazione divina – qui si determini lo stillicidio di un «io» pronunciato in qualcosa come quarantasette lingue, dall’italiano al telugu.
D’altra parte, l’insistenza sui freddi elenchi da ragioniere (vedi anche quello delle armi proprie e improprie, dai denti alla bomba atomica) rimanda al tema forte de «Le benevole», lo spettacolo che Latella ha tratto dall’omonimo best seller di Jonathan Littell centrato su un ex ufficiale delle SS. Perché il vero male del nazismo consisté nell’impassibilità con cui commise il male. E di tanto non poteva non farsi specchio la scrittura, a sua volta impassibile – ce lo insegnò Don Chisciotte – nei confronti della realtà. Conseguentemente, quindi, in «A.H.» si cita la filastrocca di Rodari intitolata «Il dittatore» e dedicata, giusto, alla pretesa del punto fermo di mettere fine al mondo.
Un simile quadro concettuale si riassume, infine, nel rapporto dialettico fra il corpo di carne dell’interprete, il bravissimo Francesco Manetti, e quello di legno del manichino che lo affianca in scena.

                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 16 novembre 2013)

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