«Il gabbiano» vola fra Bruno Martino e Gino Paoli. Sotto la neve

Licia Lanera e Vittorio Continelli in un momento de «Il gabbiano», in scena al Metastasio (le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Giusto)

Licia Lanera e Vittorio Continelli in un momento de «Il gabbiano», in scena al Metastasio
(le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Giusto)

PRATO – Eccoci, dunque, al secondo tempo della trilogia – un unico spettacolo in tre tempi intitolato complessivamente «Guarda come nevica» – con cui Licia Lanera affronta altrettanti generi letterari: il primo tempo («Guarda come nevica – Cuore di cane») era dedicato al romanzo, nella circostanza di Bulgakov; questo secondo («Guarda come nevica – Il gabbiano») si misura con il teatro, sotto specie, appunto, del capolavoro di Cechov; e il terzo («Guarda come nevica – Vlad») riguarderà la poesia, stando quel Vlad per Vladimir Majakovskij.
Ora, prima di passare all’analisi di «Guarda come nevica – Il gabbiano», coprodotto dalla Compagnia Licia Lanera, dal Teatro Metastasio (in cui l’ho visto) e dal Teatro Piemonte Europa, ripeto quanto già in varie occasioni mi è capitato di scrivere a proposito di Cechov in generale e de «Il gabbiano» in particolare. E muovo ancora una volta da «Teoria del dramma moderno», il saggio di Szondi che Cesare Cases, nell’introduzione alla sua prima edizione italiana (Einaudi, 1962), collocò tra «le poche opere veramente utili alla comprensione della genesi e delle prospettive dell’avanguardia».
Osserva Szondi: «Nei drammi di Cechov gli esseri umani vivono nel segno della rinuncia. Soprattutto li caratterizza la rinuncia al presente e alla possibilità d’incontrarsi; la rinuncia alla felicità in un vero incontro». E poi: «Rinunciare al presente significa vivere nel ricordo e nell’utopia; rinunciare a incontrarsi significa solitudine». E infine: il presente di quei personaggi, «ebbri di ricordi, che sognano il futuro», «è oppresso dal passato e dall’avvenire; è un intervallo, un periodo d’esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta».
Ebbene, di tutto questo «Il gabbiano» costituisce, nell’arco della produzione di Cechov, uno degli esempi più compiuti e persuasivi. E basta, in proposito, riflettere anche solo per un momento sulla situazione che vi si accampa: Irina Arkàdina, contro l’età che avanza, s’aggrappa alla superficie del proprio status di diva del teatro «ufficiale»; lo scrittore Trigòrin, suo amante, si crogiola nel successo tra noia, ipocrisia e narcisismo; Sòrin, fratello di Irina, rimpiange continuamente la vita che gli hanno negato i ventotto anni trascorsi da consigliere di stato; Dorn avrebbe volentieri barattato la carriera di medico e di donnaiolo con il soffio creativo degli artisti; Mascia, rinunciando all’amore per Konstantín Trepliòv, figlio dell’Arkàdina, s’acconcia a sposare il grigio maestro Medvèdenko; Nina Zarècnaja, che sognava di diventare una grande attrice, a sua volta rinuncia all’amore di Trepliòv, si mette con Trigòrin e, da lui abbandonata, si riduce a recitare in provincia per dei volgari mercanti; e Konstantín Trepliòv, che sognava di diventare anche lui uno scrittore affermato, si uccide addirittura. Come aveva promesso di fare dopo aver abbattuto col fucile il gabbiano del titolo, simbolo dichiarato dell’utopia del volo – ossia dell’impossibile riscatto da quella vita larvale – in vario modo coltivata da tutti gli «antieroi» citati.
Siamo, come si vede, alla dissoluzione della forma (quella del realismo) che distingueva il dramma tradizionale; e, dunque, proprio all’anticipazione dell’avanguardia di cui scrisse Cases in merito al saggio di Szondi. E di qui, per l’appunto, il manifestarsi determinante del simbolo.
Il simbolo rappresenta, nel testo in parola, l’elemento concettuale ricorrente (è un vero e proprio leitmotiv) e decisivo. A cominciare dal lago che si trova nella tenuta di Sòrin: se ne parla dall’inizio alla fine, e risulta evidente oltre ogni dubbio che – fatto di un’acqua chiusa, che non ha scambi con altre acque – si pone come un equivalente, giusto simbolico, della solitudine dei personaggi in campo. E la battuta (sul serio una battuta-chiave) di Mascia, «Mi si è intorpidita una gamba»? Non allude, per l’appunto, alla vita ineffettuale che qui si dipana, l’«interminabile strascico» di cui parla la stessa Mascia? Senza contare che il gabbiano ucciso da Trepliòv viene per giunta impagliato e senza contare, soprattutto, il teatrino costruito per la recita della commedia scritta da Konstantín: fallita quella rappresentazione, rimane in piedi («mostruoso», lo definisce il semplice Medvèdenko) sotto specie della perenne illusione che l’arte possa garantire un risarcimento sull’esistenza.
Venendo adesso allo spettacolo visto al Metastasio, direi, in sintesi, che con lucida strategia Licia Lanera mette in campo un sistema (sì, un vero e proprio sistema) d’invenzioni, tutte volte – sul filo di un’esemplare coerenza – a sottolineare e amplificare i nodi drammaturgici decisivi del testo: partendo da quello, fondamentale, costituito dal tempo, che qui risulta straordinariamente dilatato.
Vedi, in proposito, il Sòrin che ripete per ben quattro volte l’ultima parola delle proprie battute: si va, poniamo, da «ti fai il sangue cattivo cattivo cattivo cattivo» a «volevo vivere in città, e finisco la mia vita in campagna campagna campagna campagna»; e vedi il fatto che determinate battute succedano ad altre nei termini di un vero e proprio eco: ciò che accade, sempre per proporre un esempio, quando Mascia dice: «Mi trascino dietro la vita come uno strascico senza fine» e Dorn replica canticchiando: «Senza fine, tu trascini la nostra vita…», unendosi poi all’Arkàdina e alla stessa Mascia nell’intonare in coro: «Non m’importa della luna, / non m’importa delle stelle…».

Licia Lanera e Jozef Gjura in un altro momento dello spettacolo, diretto dalla stessa Lanera

Licia Lanera e Jozef Gjura in un altro momento dello spettacolo, diretto dalla stessa Lanera

Quest’ultimo esempio serve, per giunta, a rilevare l’impagabile ironia straniante con cui la Lanera batte in breccia la scolasticità di tanti degli allestimenti de «Il gabbiano» che abbiamo dovuto sopportare: giacché, ovviamente, la celebre canzone di Paoli prende il posto di quella, piuttosto magniloquente, che Dorn canticchia nel quarto atto del testo originale di Cechov: «Spazia la luna nei notturni cieli…».
Del resto, è appena il caso di notare, circa lo straniamento in questione, lo scarto eclatante stabilito fra il Dorn che in ossequio al testo cechoviano insiste sul caldo cantando in continuazione il notissimo hit di Bruno Martino («Estate, sei calda come i baci che ho perduto…») e, dall’altro lato, il titolo della trilogia («Guarda come nevica») e il fatto che, nello spettacolo riferito a «Il gabbiano», gli attori, reiteratamente, spostano le sdraio su cui all’inizio li avevamo visti dormire e si mettono a giocare con la neve che cade.
Nella stessa ironia, infine, affoga anche il tema del teatro nel teatro: stanti gli otto microfoni otto che compaiono all’inizio del secondo tempo e alludono, nel solco di una sacrosanta polemica, al teatro pensato e praticato come pura esibizione tecnica; e dietro un microfono si sparerà a vista Trepliòv, pronunciando lo sberleffo «Pam. Pam» e dopo che, alla fine del primo tempo, di quel microfono aveva coscienziosamente verificato l’efficienza: «Sa, sa, prova. Sa, sa…». Tanto per non dimenticare che persino «Il giardino dei ciliegi» Cechov l’aveva considerato una commedia leggera, quasi una farsa.
Aggiungo solo, per concludere, che (l’ennesimo guizzo d’intelligenza) lo spettacolo si apre, a sipario ancora chiuso, con una lettera che Cechov inviò da Yalta a Olga Knipper e in cui la saluta chiamandola «cane» perché lei stessa, quando gli scriveva, si firmava «Il tuo cane». E non è forse, a proposito della coerenza che ho evidenziato sopra, un rimando al romanzo di Bulgakov affrontato nel primo tempo di «Guarda come nevica»?
La conseguenza di tutto questo è una messinscena contratta e distesa insieme, come, sempre, è lo stillicidio dei giorni. E con una consapevolezza crudele perché fondata, Licia Lanera radicalizza l’assunto del testo di Cechov fino all’estremo, dissanguando persino il simbolo. Il famoso lago si riduce a un elemento del quadro di Claude Lorrain «Paesaggio con la ninfa Egeria» che campeggia – unica nota di colore nel nero circostante – al centro del fondale: e dunque diventa un puro e semplice particolare di una riproduzione, per giunta collocato addirittura in una dimensione mitologica.
Come se non bastasse, verso la fine quel quadro lo vedremo appeso di sghimbescio. Mentre Nina, dopo che più volte ha esclamato: «Io sono un gabbiano», indosserà per l’appunto una maschera di gabbiano, con ciò trasformando il delirio in un banale gioco carnevalesco.
Bravi – ma più che bravi, giusti – sono infine tutti gl’interpreti in campo: accanto alla stessa Licia Lanera, che veste l’Arkàdina di una nevrosi tanto dolorosa quanto esibita, e a Giulia Mazzarino, che dona a Nina gli accenti di un’innocenza costretta, per suo conto, a vestirsi di fango, agiscono i non meno efficaci Vittorio Continelli (Trigòrin), Mino Decataldo (Medvèdenko), Alessandra Di Lernia (Mascia), Jozef Gjura (Trepliòv), Marco Grossi (Sòrin) e Fabio Mascagni (Dorn).
Chiudo sottolineando quella che mi sembra la sequenza più significativa e che, comunque, non esito a collocare fra le più belle che abbia visto negli ultimi anni: al proscenio Nina e Trigòrin sono impegnati in un lunghissimo bacio sulla bocca mentre dal fondo Irina Arkàdina li guarda impietrita; e non è lo scontro a cui si potrebbe pensare, ma l’abbraccio fra una vita che s’avvia al tramonto e una vita ch’è già prigioniera dell’illusione che a un non dissimile tramonto porterà. Insomma, l’abbraccio della vita con se stessa. E su quel bacio e su quello sguardo continua a cadere la neve, metronomo dell’angoscia, insieme con la mestizia (in sol minore!) della barcarola «Giugno» delle «Stagioni» di Ciaikovskij.
A me son tornati in mente i versi del «Giardino autunnale» di Campana: «Confusa di rumori / rauchi grida la lontana vita: / grida al morente sole / che insanguina le aiole»…

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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