Lettera al mondo, fingendo di recitare mentre si recita

Elena Bucci in un momento di «Lettera al mondo», la performance presentata al Contemporanea Festival (la foto è di Ilaria Costanzo)

Elena Bucci in un momento di «Lettera al mondo», la performance presentata al Contemporanea Festival
(la foto è di Ilaria Costanzo)

PRATO – Non so quante volte mi è capitato di osservare che, per comprendere appieno un artista, occorre prestare attenzione al suo percorso, verificandone la coerenza. E non meno frequentemente ho sostenuto la necessità di dar luogo a un teatro che faccia parte della nostra vita.
Ebbene, in «Lettera al mondo», la performance che Elena Bucci ha presentato nell’ambito della sezione «Alveare» del Contemporanea Festival promosso dal Teatro Metastasio, ho sentito come un eco fortissimo, e addirittura fraterno, di quei concetti e di quelle convinzioni. Sicché, adesso, non posso scrivere un commento alla «Lettera» in questione se non alla luce del passo dei «Diari» di Friedrich Hebbel che al riguardo mi sembra decisivo: «Recitare in teatro significa in definitiva solo: vivere in fretta, eternamente in fretta! Recensire un attore significa dunque recensire il corso della vita di un uomo».
Elena Bucci ha lavorato al fianco di Leo de Berardinis, prendendo parte a molti dei suoi spettacoli più importanti, da «Quintett» a «Metamorfosi», da «L’impero della ghisa» a «I giganti della montagna», da «Totò principe di Danimarca» a «Il ritorno di Scaramouche», da «King Lear n° 1» a «Lear Opera». E la lezione di Leo non l’ha mai dimenticata. La si ritrova, applicata con rigore e passione insieme, in tutti gli spettacoli de Le Belle Bandiere, la compagnia fondata da Elena con Marco Sgrosso, un altro degli attori fedelissimi di Leo. Basta pensare agli allestimenti di «Prima della pensione» di Bernhard e «L’anima buona del Sezuan» di Brecht.
Ora, la cronaca chiede che io illustri i contenuti di «Lettera al mondo». Ma mi limito a dire, in proposito, che nei venti minuti della sua performance la Bucci mescola – oscillando fra progetto ed emozione, fra sapienza tecnica e abbandono sentimentale – i dialoghi con i vivi e quelli con i morti, i dialoghi con gli scrittori, gli artisti e i filosofi e quelli con le persone care o semplicemente incontrate: perché conta di più, molto di più, riflettere su ciò che motiva e, alla fine, rende preziosa questa scheggia di teatro.
Per cominciare, la lettera. La lettera è un mezzo per proiettare il sé al di fuori di sé, per mettersi in comunicazione con gli altri senza che il contatto fisico diretto gravi il rapporto di condizionamenti psicologici e, dunque, senza che il discorso fra gl’interlocutori perda di lucidità e sincerità. E perciò, il fatto che Elena Bucci chiami «lettera» (e, per giunta, «lettera al mondo») questa piccola esibizione ne sottolinea come meglio non si potrebbe il carattere e le modalità di svolgimento.
La faccio breve. Accade nella circostanza quanto in teatro accade rarissimamente. Se la maledizione del teatro è che, per sua natura, è costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive, può capitare che la benedizione di un attore consista, per una sua grazia misteriosa, nella capacità di fingere la recitazione nel momento stesso in cui recita. E se un attore finge di recitare mentre recita, vuol dire semplicemente che sta vivendo, che la sua recitazione si confonde, sempre e comunque, con la vita.
Mentre assistevo a «Lettera al mondo», di nuovo m’è tornata in mente l’acuta osservazione di Cendrars: «Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo e continuare ad amarlo». E guardando Elena Bucci ho rivisto il Leo de Berardinis di una lontana sera al Parco Virgiliano di Napoli.
Era il settembre del 1981. Leo presentava lo spettacolo «Leo Re incarna Marinetti, Majakovskij, Palazzeschi, Raffaele Viviani, Buster Keaton, Corra, Buzzi, Totò, Petrolini, Cangiullo». Ed eccolo lì. Dopo aver citato il Majakovskij di «In questa vita non è difficile morire, / vivere è di gran lunga più difficile», Leo gridò: «Vivete, vivete, coglioni!». Era piegato in due dal dolore e dalla tenerezza. E infine s’inchiodò con le braccia aperte sul fondale, niente più che un segno, un manifesto crocifisso a una superficie di luce bianca.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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