Ricordi d’estate fra Mazzacurati, Compagnone e Vittorio Russo

Luigi Compagnone

Luigi Compagnone

NAPOLI – Riporto la rievocazione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Nell’estate del ’77, un anno dopo la nascita della sua redazione napoletana, m’inventai a «Paese Sera» una nuova rubrica, chiamandola «Scusi, che cosa fa stasera?». Con la città semivuota, era motivata, inizialmente, dalla banale necessità di riempire in qualche modo le pagine in un periodo di magra delle notizie. Ma ben presto, e al di là di qualsiasi previsione, si trasformò in una sorta di «agorà», aperta, senz’alcuna preclusione ideologica o professionale, agli interventi dei più vari tra i personaggi napoletani di spicco: i quali, spesso, si servirono della rubrica in questione come di una posta elettronica «ante litteram».
Il primo che si collegò a quel mio personale «internet» fu Giancarlo Mazzacurati. Quarant’anni, era uno dei più giovani cattedratici e, ciò che soprattutto contava, uno dei maggiori fra gl’italianisti. E l’amabile, e pure acutissima, ironia che lo distingueva si manifestò immediatamente, già nella risposta alla domanda di rito: «Che cosa faccio la sera? Seguo con un certo interesse la vostra rubrica dei ristoranti, in attesa di vedere se avete scoperto qualcosa di nuovo. Giacché, dopo un po’, tutti i ristoranti cominciano a puzzare. Ma, naturalmente, poi al ristorante non ci vado, e vado invece a Pozzuoli, a prendere il gelato in un locale che ne fa di ottimi, a vedere il cambio fra i pescatori che scendono in mare di pomeriggio e quelli che lavorano di sera, a passeggiare lungo il porto chiacchierando con gli amici».

Giancarlo Mazzacurati

Giancarlo Mazzacurati

Gli chiesi, allora, quali fossero i temi di conversazione durante quelle passeggiate. E lui: «I “nuovi” filosofi (“nuovi” fra virgolette perché poi sono vecchissimi) e la questione femminile. Anzi, parliamo dei “nuovi” filosofi per distenderci dopo le accanite discussioni sulla questione femminile». Ma subito sgombrò il terreno dalle battute quando lo invitai a tracciare un rapido bilancio di quanto era avvenuto a Napoli fino all’inizio dell’estate: «Il bilancio possibile è fatto di molte cose che ci lasciano perplessi: ad esempio, l’emergere di forme sociali di rivolta e di emarginazione che ci rendono un po’ preoccupati, preoccupati innanzitutto di capirle. Ho la sensazione che bisogna rafforzare e qualificare il nostro impegno per uscire da una situazione di crisi che, se è di tutte le grandi città italiane, a Napoli si fa sentire con peso e pericolo maggiori. E in proposito, alla fine dell’estate gl’intellettuali napoletani, me compreso, li vorrei ritrovare più nuovi (senza virgolette). E cioè meno appartati e meno preoccupati di mantenersi immuni dalla città».
A Giancarlo Mazzacurati, e non poteva essere diversamente, rispose subito Luigi Compagnone, il nostro indimenticabile maestro di «amara scienza» napolitana: «Quella che mi fai è una domanda che molti anni fa mi avrebbe agghiacciato, perché allora me la ponevo ogni giorno, e drammaticamente, da me stesso. Era un incubo il problema di come passare la sera in questi mesi. Poi, vi fu la lunga stagione della mia amicizia con Bepi Lecaldano. Lui risolse il vecchio problema: ogni sera si stava a casa sua, ed eravamo con Luigi Incoronato, Paolo Ricci, Domenico Petrocelli e Lorenzo Sbragi. Venivano anche altri amici di passaggio per Napoli, ad esempio Guttuso, Massimo Caprara, Vincenzo Talarico. Una casa in via Catullo, davanti tutto il mare di Napoli: cene stupende, ottimo vino e discussioni senza fine. Bepi e sua moglie Maria avevano come pochi il senso dell’ospitalità e dell’amicizia. Ma è finita, Bepi è morto, Luigi Incoronato è morto, quella bella casa che ci accoglieva con tanta allegria ora è chiusa per sempre. Mi si ripropone, dunque, la vecchia domanda: che cosa faccio stasera? E invidio Mazzacurati. Io non vedo più nessuno, e le sere senza amici sono terribili. Perciò spero che Mazzacurati si commuova e m’inviti una di queste sere a passeggiare con lui lungo il porto di Pozzuoli».
Ma non ci volle molto perché riaffiorasse l’indomito e lucido polemista che era Compagnone: «Alla fine dell’estate vorrei riuscire a trovare tutto quello che finora a Napoli non abbiamo trovato. Ma i miracoli è improbabile che avvengano, e del resto l’estate è troppo breve per prepararli, appena un soffio. Dunque rimando tutte le mie speranze all’inverno, e attendo le piogge invernali perché lavino un po’ certe teste, specialmente quelle di alcuni intellettuali: i quali, però, non vivono affatto, come ritiene Mazzacurati, appartati. Invece stanno sempre in mezzo, e non fanno che collaborare con la parte più retriva di Napoli. Alla fine dell’estate li ritroveremo più abbronzati e come sempre sereni».

Vittorio Russo

Vittorio Russo

Il caldo, in senso metaforico, venne poi ribadito dall’intervento di Vittorio Russo, colui che m’insegnò a capire Dante e, così, a cogliere il brivido di una bellezza perenne. Gli «indiani» della «riserva» di Filologia Moderna della «Federico II», in cui, per l’appunto, teneva impareggiabilmente la cattedra di Filologia Dantesca, lo avevano ribattezzato «Pioggia Bollente». E infatti, già la sua premessa fu in linea con quel soprannome: «Ti confesso che trovo qualche difficoltà ad essere, di questi tempi, sia pure vagamente scherzoso o ironico. L’ironia è una figura retorica che implica soprattutto un atteggiamento mentale di distacco o di scetticismo che non mi si attagliano. Preferisco tutt’al più la satira, se proprio devo rinunciare all’invettiva. E dunque alla tua domanda risponderei subito con una battuta: in queste sere cerco di raccogliermi e di prendere “coraggio”, dal momento che pare che i lavoratori intellettuali del mio tipo abbiano finito per macchiarsi di “disfattismo” e di “vigliaccheria”».
La frecciata al Partito Comunista era sin troppo evidente. E a scanso di ogni equivoco, Vittorio si affrettò ad aggiungere: «Ecco, di questo si tratta. So che ogni volta date un titolo a questa rubrica, io per me la intitolerei “M’incazzo”. Guai, infatti, a perdere fiato e a non incazzarsi più tanto in ogni circostanza e per ogni cosa. Sei fregato per sempre».
Poi precisò: «La cosa per cui negli ultimi tempi mi sono incazzato di più è lo spettacolo di un’emarginazione sempre più forte della città in generale e degli strati popolari meno abbienti in particolare». E di conseguenza, continuò, «evito accuratamente, in queste sere, d’incontrare gli amici consueti, vecchi e giovani. Ho bisogno di mettere a fuoco anche loro. Un po’ di distanza, con la presbiopia che incalza per l’età, mi consente di “vederli” meglio. Quando esco, preferisco uscire molto tardi la sera, evito Pozzuoli e scelgo il “ventre di Napoli”, o anche le strade del centro immediatamente a ridosso dei vicoli. E cerco anche lì di guardare e di capire un po’ meglio. Chi vuole toccare con mano, prima di parlare per sentito dire, l’emarginazione di strati di popolazione espropriati nelle più giovani generazioni anche dei vecchi miti della loro cultura arretrata, non ha che da girare per le strade. E tuttavia, se mi tocca frequentare di più per il mio lavoro e i miei contatti quotidiani, mi vengono in mente i versi che Dante riserva alla folla degl’ignavi: “(…) i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta”. Deformazione professionale? Comunque, al ritorno da questi giri mi sembra di capire di più persino i nuovi filosofi francesi, magari per criticarli meglio. Ma soprattutto mi sembra di capire meglio da che parte stare, da che parte lavorare e con chi incazzarmi».

Antonio Casagrande

Antonio Casagrande

Con chi incazzarsi era invece più che certo d’averlo capito Antonio Casagrande, che per bocca di Don Libborio Occhialoni, il suo personaggio mutuato dal Don Nicola vivianeo, mi fece arrivare una protesta contro Crimi: «Lei del Turismo mò siete Assessore / e fate subbito l’affamatore / bloccando, impavido, le sovvenzioni / (che si riducono poi a pochi milioni) / per quel settore di professionisti / che sono tecnici attori e registi / e sbandierate che ‘st’operazione / non è che una delle soluzioni / che serviranno in tutta franchezza / a risanare con oculatezza / il vostro bilancio che è ‘na schifezza. / Se la Regione ci ha il deficit / di procurarvelo chi ve l’ha ditte? / Lei fate il medico fino da ieri / e che c’entrate col nostro mestiere? / Sarebbe come se io che so’ artista / mi piccherebbo ‘e fa’ ‘o farmacista / così a colui che mi chiede: chinino / sicuramente gli do stricnina».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 24/8/2019)

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