Falcone e Borsellino, ferite di luce

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Riporto la rievocazione dello spettacolo «La forza della memoria» pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Più voci, nei giorni scorsi, hanno rievocato la tragedia di Falcone e Borsellino. E al riguardo propongo per la prima volta in un giornale un mio monologo, «Ferite di luce», che scrissi per lo spettacolo «La forza della memoria», allestito dal Teatro Stabile di Palermo per la regia di Pietro Carriglio e dato il 18 luglio 2005, nel cortile Maqueda di Palazzo dei Normanni, in occasione del tredicesimo anniversario dell’assassinio di Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina e Agostino Catalano.

Mario Luzi

Mario Luzi

Parteciparono con loro testi inediti a quello spettacolo anche Mario Luzi, Felice Cavallaro, Piero Longo, Tano Gullo, Franco Scaldati, Dacia Maraini, Jolanda Insana, Davide Rondoni e Maurizio Cucchi. Correvamo dei rischi e lo sapevamo. Infatti, qualcuno degli autori preferì non essere presente. E lo spettacolo venne dato in un clima da vero e proprio stato d’assedio. Non ho mai visto tanti poliziotti, a parte la non meno considerevole folla degli uomini dei servizi segreti che non si vedevano. Il procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Grasso, c’era ma non si vedeva neppure lui, nascosto al centro di un cerchio impenetrabile di guardie del corpo. E comunque, eravamo tutti – noi autori, il regista, gli attori – commossi e un po’ fieri, perché sentivamo di star lì a testimoniare, ben oltre il teatro, che cosa può significare la coscienza dell’essere cittadini liberi.
Io, poi, che non ci avevo mai pensato due volte a cacciarmi, nel corso di una vita variamente avventurosa, in analoghe e ugualmente pericolose situazioni (per esempio in Grecia, durante la dittatura dei colonnelli, e in Portogallo, durante la «Rivoluzione dei Garofani»), me ne tornai a piedi, insieme con mia moglie, all’albergo Mediterraneo, che – situato fra il Teatro Massimo e Piazza Politeama – si trova, quindi, a una distanza più che notevole da Palazzo dei Normanni. Ma ecco qui di seguito il testo completo di «Ferite di luce», preceduto dalla nota introduttiva che ne riassume i contenuti e ne illustra le forme. Naturalmente, il testo è scritto tutto di seguito, senz’alcuna interruzione. Come s’addice a uno sfogo drammatico pungolato, di continuo, dall’urgere del dolore in un’esistenza individuale negata.

Pietro Grasso

Pietro Grasso

Il personaggio (ovviamente immaginario) protagonista di questo monologo è il killer che uccise i giudici Falcone e Borsellino: fu lui a premere il pulsante del telecomando che fece esplodere le bombe di Capaci e via D’Amelio; e qui espone i retroscena e i motivi del suo delitto a metà fra la confessione e il delirio. Per neutralizzare, nei limiti del possibile, i rischi della retorica e dell’oleografia, gli viene attribuito un linguaggio fortemente e dichiaratamente connotato in senso letterario, di cui fanno fede, per esempio, le citazioni da Emily Dickinson, da Shakespeare e da Sofocle. A tratti il personaggio in questione s’interromperà per canticchiare, come in un soprassalto della memoria, alcuni dei motivi popolari siciliani resi celebri da Rosa Balistreri: e anche questo è uno «straniamento», ma, soprattutto, costituisce – pirandellianamente – la tensione verso l’innocenza rigeneratrice della Terra Madre.

Pietro Carriglio

Pietro Carriglio

Non è il calore, no. In quest’isola, in questa città – fra gl’intricati passi dell’anima, sui cammini di ronda dai giardini e dall’acque sorgive di Abd ar Rhaman al Brancaccio del sangue amaro di Pino Puglisi, nelle spire dei valzer gattopardeschi – non dà fastidio il calore, ma la luce. È pericolosa, la luce: perché ti fa vedere tutto chiaro, ti dice chi sei e come sei… (canta sommesso, da «Ch’è autu lu suli», i versi: «Sant’Agata, ch’è autu lu suli, / fallu pi carità, fallu calari»)… A me la luce mi ha perseguitato fin da quando cominciai a capire: era la luce che accendeva gli occhi degli altri bambini nella terza elementare dove per me finì la scuola, era la luce che trasformava in pugnali gli sguardi sui miei pantaloncini rattoppati e le mie scarpe logore… E non per i quattro soldi che mi diede, fu per fuggire dalla luce che seguii quel vecchio in uno degli androni della Kalsa, uno dei mille buchi neri da cui partiamo, perennemente, per la discesa agl’inferi o il ritorno nell’utero. E non fu perch’ero diventato uomo d’onore con la pungitura e bruciando l’immaginetta che, molti anni dopo, premetti il bottone sul telecomando che fece esplodere la bomba sull’autostrada Trapani-Palermo, fra lo svincolo di Capaci e Isola delle Femmine… C’è una certa inclinazione della luce, nei pomeriggi invernali, che dà l’angoscia come gli opprimenti cori delle cattedrali. Ci procura una celeste lesione di cui non scorgiamo lo sfregio. Ma io quello sfregio lo vedevo bene. E perciò, per non vederlo più, scelsi un pomeriggio di primavera, il 23 maggio alle 17,59, e la vampa del tritolo: volli spegnere la luce che mi perseguitava accendendo una luce più forte e diretta e violenta… (come sopra, canta, da «Mirrina», i versi: «Amuri, tu lu sai, sta vita è amara / e sai ca pur’a siti mi turtura. / Si scontri a Nina cu la so quartara, / dicci ca Turi so mori d’arsura»)… Era rosso o nero, quel telecomando? È strano che non me lo ricordi. Invece, mi ricordo perfettamente il colore del telecomando che usai per via D’Amelio: era rosso, rosso fuoco. Anche lì, il 19 luglio, era pomeriggio. Un pomeriggio di domenica. E anche questo secondo giudice, come l’altro, attizzava con le sue parole la luce che mi ha perseguitato fin da quando cominciai a capire. Quella luce che mi faceva vedere più alti i ragazzi e le ragazze all’Olivella, quando, nello scialo delle feste comandate, potevo accostarmi a loro, concedendomi pane e panella a una friggitoria. Perciò, poi, mi fece piacere andare a riscuotere il pizzo dalle friggitorie: dal momento che quei ragazzi e quelle ragazze, osservandomi, tradivano un brivido di timore, a me sembrava che fossi diventato più alto di loro. Ma lo sapevo, io restavo sempre più in basso. E le parole di quei due giudici parlavano di tutto ciò ch’era il mio contrario, parlavano di coraggio e dignità. In fondo, parlavano di vita e di amore, cose luminose che tentavano di strapparmi al buio: il buio che avevo scelto come rifugio proprio perché non conoscevo il coraggio e la dignità. E adesso… adesso… (sempre come sopra, canta, da «Mi votu e mi rivotu», i versi: «Mi votu e mi rivotu, / passu li notti ‘nteri senza sonnu»)… Quei due, Falcone e Borsellino, mi hanno sconfitto, perché il loro delitto è stato più grande del mio: io ho ucciso soltanto loro, loro hanno ucciso il sonno, la notte e il buio. Adesso, lo so, la luce resterà accesa per sempre, perché è la luce delle idee: delle idee che sono non di un’ora, non di un giorno fa, ma hanno vita misteriosamente eterna, e nessuno sa la radice della loro luce. (sull’attore, immobile, cala una luce abbagliante, mentre si leva altissima la voce di Rosa Balistreri: «Amuri, tu lu sai, sta vita è amara / e sai ca pur’a siti mi turtura. / Si scontri a Nina cu la so quartara, / dicci ca Turi so mori d’arsura»).

                                                                                                             Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 23/7/2019)

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