L’anarchia dell’amore, dell’immaginazione e dell’arte

Lino Musella in un momento di «The night writer» di Jan Fabre (le foto che illustrano questo articolo sono di Angelo Maggio)

Lino Musella in un momento di «The night writer» di Jan Fabre
(le foto che illustrano questo articolo sono di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – «L’anarchia dell’amore. L’anarchia dell’immaginazione. L’anarchia dell’arte. Le tre leggi della vita che rispetto e che osservo». E poi: «In margine all’ordine del giorno vivo nei miei disegni e nei miei scritti. E mi ci sento bene. L’immaginazione su quegli insignificanti foglietti di carta mi protegge dall’orribile bruttezza del mondo esterno».
Credo proprio che siano questi – datati rispettivamente «Anversa, 16 aprile 1988» e «Anversa, 23 settembre 1988» – i passi-chiave di «The night writer», lo spettacolo di Jan Fabre (suoi il testo, le scene e la regia) che ha aperto la XX edizione del festival «Primavera dei Teatri». Perché, insieme, danno perfettamente conto della forma e dei contenuti qui esibiti dal celebre artista visivo, scrittore e regista teatrale belga.
Per la cronaca, siamo di fronte a un testo (la traduzione è di Franco Paris) che risulta da pagine del «Giornale notturno», il diario di Fabre, e da brani tratti da «La reincarnazione di Dio» (1976), «Io sono un errore» (1988), «L’imperatore della perdita» (1994), «Corpo, servo delle mie brame, dimmi…» (1996), «Il re del plagio» (1998), «Io sono sangue» (2001), «La storia delle lacrime» (2005) e «Drugs kept me alive» (2012). E ciò che mette in luce tale antologia è, puramente e semplicemente, l’ossimoro fiammeggiante della creazione artistica, costituita nello stesso tempo dal tormento e dall’estasi.
Del resto, è un ossimoro già la compresenza della notte, in cui Fabre può rifugiarsi nelle riflessioni che annota nel diario, e del giorno, in cui, al contrario, è costretto al rapporto spesso compromettente e fuorviante con gli altri. E se afferma orgoglioso che «quegli insignificanti foglietti» lo proteggono «dall’orribile bruttezza del mondo esterno», d’altra parte osserva smarrito: «Forse devo farmi coraggio, in uno slancio di fiera umiltà, prendermi per quello che sono. Un vermiciattolo assetato di ambizione e con uno spettacolare impulso all’autodistruzione. Che cerca disperatamente di raccapezzarsi in un luogo appena percettibile di un’anonima galassia».
Non a caso, d’altronde, «l’ange de la mort» che dava il titolo a un precedente spettacolo di Fabre (lo vedemmo nell’ottobre del 2005 alla Mostra d’Oltremare di Napoli) era per l’appunto l’artista: il quale partecipa del divino in quanto creatore ma muore nel momento stesso della creazione, poiché l’opera con cui s’identifica (e che, giusto, lo fa esistere in quanto artista) appartiene solo agli altri, a chi ne fruisce; così come non a caso, mentre il sottotitolo di quello spettacolo recitava: «Monologo per un uomo, una donna o un ermafrodito», la protagonista, la danzatrice croata Ivana Jozic, dichiarava: «posso essere ogni animale».

Jan Fabre nella sequenza conclusiva di «The night writer»

Jan Fabre nella sequenza conclusiva di «The night writer»

In «The night writer», infatti, è proprio all’innocenza animalesca del corpo che viene accostata l’attività intellettuale e, quindi, artistica: «Il prolungamento del mio cervello è il mio pene. Voglio mappare il mio cervello (disegni con lo sperma?)». E l’ossimoro dilaga – violento e comico insieme – anche quando Fabre affronta, sempre in termini autobiografici, il tema della famiglia.
È capace di dire, indifferentemente, «La mia famiglia è una tragedia greca. Mia madre era ubriaca e voleva baciarmi con la lingua», «Mia madre, Helena Troubleyn, ha l’anima dell’artista. Sa mentire senza arrossire» e, riferendosi al 25 dicembre 1988, «La sera dei miracoli è un momento beato in cui la mia famiglia ascolta a bocca aperta mentre io ci piscio dentro».
Di conseguenza, una strettissima relazione viene stabilita fra l’arte e i fluidi corporei: «Io piango arte. Io piscio arte. Io sputo arte. Io sudo arte. L’arte non viene realizzata. L’arte viene secreta»; e ancora: «Perché secerno volentieri arte? Perché non posso spruzzare sperma tutto il giorno. Perché spruzzo volentieri sperma? Perché non posso secernere arte tutto il giorno».
Il riassunto di tutto questo sta nella dichiarazione seguente: «La consapevolezza della mia stessa mortalità è un’esistenza assai intensa. Provo un piacere esuberante e una gioia vitale nel decadimento del mio stesso corpo. Il decadimento è artisticamente e spiritualmente essenziale. Sto celebrando il mio declino. Una bellezza è stata creata dentro al mio corpo. La bellezza di un cumulo di macerie».
Ebbene, da tutto questo Fabre, in quanto regista e scenografo, trae uno spettacolo visionario e febbrile, ma attraversato dal filo rosso di un’affilata consapevolezza. Il se stesso/attore staziona in prevalenza dietro un tavolo col piano di vetro (si potrebbe parlare di una scrivania di design) sperduto in un mare di sale. E il sale, ovviamente, è ciò che rimane dopo l’evaporazione dell’acqua marina: perché, qui, assistiamo alla continua evaporazione del risaputo e delle frasi fatte sull’arte e a una non meno costante emersione della concreta verità legata alle emozioni.
La parola, in breve, tende strenuamente a farsi sconfiggere dal simbolo e, di conseguenza, a perdersi nel puro suono e nel semplice fonema. E ne deriva, si capisce, uno scontro all’ultimo sangue fra l’«alto» e il «basso». Come quando, per fare solo un esempio, al se stesso/attore che si esibisce in una rabbiosa «My way» Fabre oppone la marionetta del se stesso che sbuca dalla quinta di proscenio a destra e rimane a guardare quel suo «doppio» sproloquiante fumando imperturbabile e inalberando, un attimo prima di sparire, un lungo naso da Pinocchio.
Già, una salutare autorironia presiede a questo spettacolo. E la traduce come meglio non si sarebbe potuto un Lino Musella che offre nella circostanza una delle migliori prove d’attore degli ultimi anni: basta guardarlo e ascoltarlo, tanto per fare anche qui degli esempi, quando esplode in un accesso che – ricalco eclatante dell’ossimoro di cui sopra – mescola parossisticamente pianto e risata o quando, in seguito, da svagato entertainer invita il pubblico a cantare insieme con lui «Volare».
Un autentico volo, per l’appunto, è infine la sequenza conclusiva. Sul fondale era stato proiettato, reiteratamente, sempre lo stesso video in bianco e nero con immagini generiche del porto di Anversa. E adesso entra nell’inquadratura Fabre che si sporge dal bordo di una barca per deporre su quell’acqua, lurida di vizi e scartiloffi come in ogni porto del mondo, le lettere di vetro blu che ricompongono visivamente la battuta che prima avevamo ascoltato: «Questa pazzia è fantastica».
Quel blu è l’esatto equivalente del rosso del cappottino della bambina che compariva in «Schindler’s List». Un segno di speranza. Ma subito dopo Fabre cala sull’acqua anche la riproduzione, anch’essa in vetro blu, di un gufo. Ed è l’estremo segno dell’autoironia. Sicché ben a ragione possiamo assumere come epigrafe e sintesi di questo spettacolo, nello stesso tempo inquietante e corroborante, i versi programmatici di Cardarelli: «La speranza è nell’opera. / Io sono un cinico a cui rimane / per la sua fede questo al di là. / Io sono un cinico che ha fede in quel che fa».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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