Quando la pioggia smette di cadere. E il tempo di scorrere

Emiliano Masala e Camilla Semino Favro in un momento di «When the rain stops falling» (le foto che illustrano questo articolo sono di Sveva Bellucci)

Emiliano Masala e Camilla Semino Favro in un momento di «When the rain stops falling»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Sveva Bellucci)

BOLOGNA – Credo proprio che nello scrivere «When the rain stops falling (Quando la pioggia smette di cadere)» – il testo che Emilia Romagna Teatro, Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due presentano ancora oggi e domani, in «prima» assoluta, all’Arena del Sole di Bologna – il cinquantasettenne e pluripremiato drammaturgo australiano Andrew Bovell abbia tenuto davanti agli occhi «Il posto delle fragole» di Bergman.
In quel celebre film, lo sappiamo, il dottor Isak Borg entra nei flashback relativi ai propri ricordi da vivo, com’è adesso, addirittura confrontandosi, da vecchio, col se stesso giovane. E tanto accade con i personaggi messi in campo da Bovell. In breve, il pregio non comune di «When the rain stops falling» sta nel fatto che non dà luogo al semplice gioco della memoria, ma a un rapporto di tipo speculare: giacché solo nella «coabitazione» di passato e presente possono rintracciarsi l’anima e lo statuto della vita e della storia.
Qui si svolge, dal 1959 al 2039, la saga delle famiglie Law e York: quattro generazioni di padri e figli, e delle loro madri e mogli. E il racconto – epico, intimo e distopico insieme, e scandito, giusto, da una pioggia incessante – va avanti e indietro nel tempo. Tanto è vero che comincia dalla fine, con la scena, collocata per l’appunto nel 2039, di Gabriel York che aspetta l’arrivo di suo figlio Andrew, ormai adulto e che non vede da quand’era bambino.
Così, i personaggi – ai due citati si aggiungono Gabriel Law, Gabrielle York, Henry ed Elizabeth Law (il padre e la madre di Gabriel) e Joe Ryan (marito di Gabrielle York e patrigno di Gabriel York) – entrano ed escono, da giovani e da vecchi, da un quadro all’altro e da un luogo all’altro, continuamente incrociandosi e sovrapponendosi. Di modo che, sebbene l’azione si sposti dall’Australia all’Europa e viceversa, fra Alice Springs, Londra, Adelaide, il Coorong, la zona in cui sorge l’Uluru, ovvero l’Ayers Rock, e le piane di Hay, la sua vera sede è una terra di nessuno, eternamente uguale a se stessa.
Infatti, ecco come descrivono le loro abitazioni Gabriel York ed Elizabeth Law: il primo dice del suo monolocale: «È sporco. A dire la verità, è lercio. Negli angoli e sui davanzali e sui soffitti. Strati di polvere e sporcizia e sudiciume e insetti morti. Anni di incuria»; e la seconda gli fa eco, dicendo della stanza sua e di Henry: «Mi sono guardata intorno e ho notato quanto sporca fosse la nostra stanza. Lercia, a dire la verità. Negli angoli e sui davanzali e i soffitti. Strati di polvere e sporcizia e sudiciume e insetti morti. Anni di incuria».
Si capisce, quindi, che il testo di Bovell – qui nell’agile traduzione di Margherita Mauro – è fondato su frasi identiche pronunciate e ripetute da personaggi diversi e in circostanze diverse. E tanto accade addirittura nella stessa scena: come, per esempio, nella stanza di Joe Ryan e Gabrielle York ad Adelaide, con lui e lei che a turno commentano a proposito del pesce: «Dicono che faccia bene. Bene al cervello. Che bisognerebbe mangiarne tre volte alla settimana»; o come, sempre per esempio, in un cimitero del Coorong, con Gabriel e Gabrielle che a turno dicono: «Lascia che i morti si prendano cura dei morti». Senza contare l’autentico stillicidio della battuta: «E comunque, c’è gente che annega in Bangladesh, per cui non dovremmo lamentarci».

Caterina Carpio e Francesco Villano in un altro momento dello spettacolo, ancora oggi e domani in scena all'Arena del Sole

Caterina Carpio e Francesco Villano in un altro momento dello spettacolo, in scena all’Arena del Sole di Bologna

È (e costituisce l’approdo alto del testo) la rappresentazione simbolica del vero tema svolto in «When the rain stops falling»: che, parafrasando il titolo, possiamo tranquillamente identificare con la frase «Quando il tempo smette di scorrere». Gli avvenimenti narrati – che comprendono persino il tragico emergere del desiderio sessuale che Henry prova per suo figlio bambino – somigliano ai fotogrammi, guardati controluce, di una pellicola srotolata non in senso verticale, come di solito accade, ma orizzontalmente. In maniera sincronica.
A questo allude la battuta-chiave pronunciata da Elizabeth e ripetuta alla fine da Gabriel: «Non avere niente da dire è come avere così tanto da dire che non si ha nemmeno il coraggio di cominciare». Sicché scopriamo che il testo di Bovell – complesso, sottile e, nondimeno, attraversato da brividi di tenerezza – parla, puramente e semplicemente, dell’impossibilità d’inquadrare, definire e interpretare la vita. Tentiamo di farlo con parole tanto gonfie quanto evanescenti. E invece la vita consiste nel susseguirsi di momenti in sé conclusi, e che dunque, tutti insieme, formano un presente onnivoro che a sua volta significa solo se stesso.
L’unica certezza sono le cose. E al riguardo mi viene in mente, per tornare al cinema, quanto, fra l’altro, raccontò Blaise Cendrars ricordando un vecchio film: «Sullo schermo si vedeva una folla, e tra la folla c’era un ragazzo col berretto sotto il braccio: improvvisamente questo berretto, simile a qualsiasi altro berretto, incominciò, senza muoversi, a dar segni di vita intensa; si sentiva che stava per lanciarsi con un balzo, come un leopardo!».
Accade lo stesso con gli oggetti accolti in «When the rain stops falling», a partire proprio da un cappello che compare e ricompare dall’inizio alla fine. Intorno a quegli oggetti si determina un alone di suggestioni tanto infinite quanto misteriose. E non sorprende, perciò, che al termine diventino protagonisti il pezzo di legno levigato dal mare, la scarpa di un bambino, l’urna cineraria, il libro in francese spedito dalla nonna inglese, appunto il cappello del patrigno, le lettere e le cartoline che Gabriel tira fuori da una vecchia valigia. Dice Gabriel al figlio Andrew: «Non so che significato abbiano tutti questi oggetti. È poca roba. Anzi quasi niente. Posso dirti però che da qualche parte in fondo a questo groviglio ci sono le tue radici».
È solo questa presa d’atto che, nel rifiuto d’ogni illusione, gli consente di aggiungere: «Ascolta… Ha smesso di piovere». E la regia di Lisa Ferlazzo Natoli rende un simile quadro con una serie d’invenzioni che s’inscrivono, insieme, nell’eleganza e in una precisione da entomologo. Ne cito, qui di seguito, quella centrale, che informa di sé tutto lo spettacolo, e quella finale, che colloca l’allestimento di «When the rain stops falling» tra gli eventi teatrali più convincenti ed emozionanti degli ultimi tempi.
Nella scena di Carlo Sala gli scarsi arredi che connotano i vari ambienti in cui si dipana l’azione sono presenti tutti insieme, dall’inizio alla fine, come se quei vari ambienti fossero ridotti a uno solo, per l’appunto la terra di nessuno predetta. E al termine, in concomitanza con l’apertura della vecchia valigia da parte di Gabriel, gli altri personaggi s’accostano a lui portando con sé i proiettori che durante l’intera rappresentazione erano rimasti ai lati dello spazio scenico: quei proiettori che, se prima s’accendevano a intermittenza, come battiti del cuore o soprassalti della coscienza, adesso si mantengono sempre accesi, ad illuminare, contemporaneamente, i personaggi e gli oggetti che a mano a mano escono dalla valigia. Perché, s’intende, sono la stessa cosa i personaggi e gli oggetti in questione.
Di grande rilievo, infine, la prova degl’interpreti, che nomino tutti senz’alcuna distinzione: Caterina Carpio (Gabrielle York vecchia), Marco Cavalcoli (Gabriel York), Lorenzo Frediani (Andrew Price), Tania Garriba (Elizabeth Law vecchia), Fortunato Leccese (Gabriel Law), Anna Mallamaci (Gabrielle York giovane), Emiliano Masala (Henry Law), Camilla Semino Favro (Elizabeth Law giovane) e Francesco Villano (Joe Ryan).
Insomma, questo spettacolo mi ha fatto pensare, ancora un volta, che la vita è come il mare, ti porta, senza che tu possa impedirlo, indifferentemente l’«alto» e il «basso», il «bene» e il «male», il «vero» e il «falso». E dunque ho ripensato, insieme, a Yannis Ritsos, che incontrai ad Atene, nella cupa notte dei colonnelli, in una casa bianca di fronte al Partenone. Lui, comunista severissimo e, pure, dolce ed eterno innamorato, seppe bene che il mare «non puoi tagliarlo a fette come la pagnotta, non puoi spartirlo, / è intero e vuole che anche tu sia intero, intero ti prende / e tu intero lo combatti, lo conquisti o lo perdi, sempre intero».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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2 risposte a Quando la pioggia smette di cadere. E il tempo di scorrere

  1. Francesco Scotto scrive:

    Gentile dott. Fiore,
    ancora una volta la sua approfondita e illuminante analisi mi ha consentito di recuperare al Teatro Argentina di Roma uno spettacolo che, per l’originalità della scrittura e l’eccellente messa in scena, meritava il viaggio.
    Nel ringraziarla, le porgo cordiali saluti.
    Francesco Scotto

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Francesco,
    grazie, ancora una volta, per l’attenzione e l’apprezzamento che mi riserva.
    Le ricambio i saluti con altrettanta cordialità.
    Enrico Fiore

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