Quando, per esistere, la bontà deve mascherarsi da cattiveria

Shen Te (Elena Bucci) e i tre dei (da sinistra, Valerio Pietrovita, Maurizio Cardillo e Andrea De Luca) in una scena dell'allestimento de «L'anima buona del Sezuan» di Bertolt Brecht, presentato allo Storchi di Modena (le fotografie che illustrano l'articolo sono di Marco Caselli Nirmal)

Shen Te (Elena Bucci) e i tre dei (da sinistra, Valerio Pietrovita, Maurizio Cardillo e Andrea De Luca)
in una scena dell’allestimento de «L’anima buona del Sezuan» di Bertolt Brecht, presentato allo Storchi di Modena
(le fotografie che illustrano l’articolo sono di Marco Caselli Nirmal)

MODENA – Sono stato sempre convinto che la chiave per capire «L’anima buona del Sezuan» non stia nel testo, ma in «A coloro che verranno», la poesia che Brecht scrisse nell’esilio di Svendborg proprio nei giorni del ’38 in cui metteva mano alla sua «parabola» (così la definì) cinese. Difatti, «L’anima buona del Sezuan» potrebbe assumere come epigrafe i versi decisivi di quella poesia: «[…] Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, / noi non si poté essere gentili». E in tale convinzione mi conforta, adesso, Elena Bucci, regista in collaborazione con Marco Sgrosso dell’allestimento del testo in questione presentato allo Storchi dal Centro Teatrale Bresciano e da Emilia Romagna Teatro.
Ma, prima di procedere con l’analisi dello spettacolo, riflettiamo un attimo sul quadro significante da cui esso nasce.
Non è in esilio (in esilio da se stessa) anche Shen Te, la protagonista del dramma del quale parliamo? Ne conosciamo la storia: l’ex prostituta – per l’appunto individuata come un’anima buona dai tre dei spediti sulla terra in avanscoperta – vorrebbe, sì, esercitare e far fruttare la propria bontà, ma per riuscirci è costretta ad inventarsi il cugino Shui Ta, un suo «doppio» che la protegge col cinismo e il calcolo dall’egoismo e dall’avidità circostanti. In altri termini, Shen Te, per potersi difendere, deve «emigrare» in territori «altri». Vale a dire che, per esistere, la bontà è costretta a indossare la maschera della cattiveria.
Eccola, allora, l’attualità della «parabola» brechtiana. Risiede in quest’ossimoro, nella compresenza dell’ombra e della luce. E viene annunciata dai versi capitali che Shen Te rivolge direttamente al pubblico in riferimento alla battuta («Non possiamo cambiare il mondo») pronunciata dalla Cognata: «Non rispondono più. Dove li metti, / loro rimangono. E se li cacci via / sgombrano subito il campo! / Nulla più li commuove. Solo / l’odore del cibo gli fa alzare gli occhi».
Quei versi richiamano la solitudine e lo scoramento che toccano a chiunque, oggi, ancora si ostini a pensare, e a pensare che il mondo si possa e si debba cambiare: è circondato (peggio, assediato) dalla moltitudine sterminata degli zombi convinti che la vita stia nei cellulari in cui hanno imprigionato il cervello e nei salotti televisivi in cui credono che si discuta della società nel solco, se non delle ormai tramontate ideologie, almeno delle idee, di idee purchessiano.
Inoltre, e sempre in riferimento all’attualità del testo, ne «L’anima buona del Sezuan» la solitudine e lo scoramento si traducono, per giunta, nell’insinuarsi del dubbio che spasima nell’epilogo: «Deve cambiare l’uomo? O il mondo va rifatto? / Ci vogliono altri dei? O nessun dio affatto?». Ma, poi, ciò che conta (questa la luce) è il compito affidato agli spettatori in quanto cittadini: constatato che «siamo annientati, a terra, e non solo per burla!», non «v’è modo di uscir dalla distretta / se non che voi pensiate fin da stasera stessa / come a un’anima buona si possa dare aiuto, / perché alla fine il giusto non sia sempre battuto».
È solo nell’ottemperare a un simile dovere che si può sciogliere l’antinomia della storia di Shen Te, di quella «leggenda d’oro» che «strada facendo, in male s’è cambiata», lasciando, «a sipario caduto», ogni problema «insoluto». Questo, dunque, costituisce il messaggio di Brecht ancora oggi valido: possiamo pensare, nel merito, persino alla vicenda che dalla Rivoluzione d’Ottobre portò a Stalin; e in fondo, ne «L’anima buona del Sezuan» finiamo a riscoprire per l’ennesima volta Gramsci, la necessità di praticare, insieme, il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. Quel che è certo, sembra ripetere Brecht ai benpensanti privilegiati contemporanei, è che «un’altra via d’uscita / neanche i vostri soldi han saputo ispirarla».

Marco Sgrosso, nei panni dell'acquaiolo Wang, in un altro momento dello spettacolo, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e da Emilia Romagna Teatro

Marco Sgrosso (l’acquaiolo Wang) in un’altra scena dello spettacolo, coproduzione Centro Teatrale Bresciano-ERT

Ebbene, l’allestimento de «L’anima buona del Sezuan» firmato da Elena Bucci e Marco Sgrosso trova il suo non comune pregio nel fatto che il tema concettuale dello spettacolo (ripeto, il travestimento da cattiva a cui viene obbligata la buona Shen Te) non viene solo esposto e svolto, ma – questo lo scatto – diventa lo spettacolo stesso.
Per cominciare, tutti gli attori recitano indossando maschere, quelle, bellissime, realizzate da Stefano Perocco di Meduna. E, poi, è l’azione stessa che si traveste: nel senso che si distribuisce su cinque classici palchetti da Commedia dell’Arte, uno centrale fisso e gli altri mobili, variamente disposti intorno al primo sì da conferire all’azione medesima una continua frammentazione e, dunque, un sempre nuovo aspetto. Mentre, sul piano formale, prende corpo una Cina da favola ironicamente rivisitata, e con ferrea coerenza, attraverso i costumi di Ursula Patzak e, soprattutto, movimenti e gesti che oscillano fra il Tai Chi e le arti marziali.
Allo stesso modo, della sapiente commistione di generi (dal cabaret al dialogo filosofico, dall’invettiva politica alle scene d’amore) dispiegata da Brecht si scopre un eco fedele nelle musiche originali eseguite dal vivo di Christian Ravaglioli, che alternano le sonorità ipnotiche dell’Oriente e la parodia della musica occidentale di consumo riscontrabile nei songs di Weill. E se, in funzione straniante, l’allestimento adotta anche talune escursioni, peraltro impagabili, nei territori della spettacolarità pura (come nel caso del «numero» alla Brachetti in cui, a vista, il costume e la maschera di Shen Te vengono sostituiti con quelli di Shui Ta o delle cadenze pugliesi attribuite alla signora Yang), in pari tempo s’apre a raffinatissime ancorché, magari, inconsapevoli evocazioni (come nel caso del Bululu, la forma di spettacolo popolare che soltanto la Spagna conosce e in cui dal braccio teso di un cieco scende fino a terra un mantello nero, e d’un tratto quel braccio diventa il proscenio al quale compaiono i burattini, manovrati dall’accompagnatore del cieco nascosto dietro il mantello).
Superfluo, a questo punto, sprecare parole circa la bravura degl’interpreti: accanto agli strepitosi Elena Bucci (Shen Te/Shui Ta) e Marco Sgrosso (Wang e Yang Sun), si distinguono soprattutto Nicoletta Fabbri (la vedova Shin) e Marta Pizzigallo (la signora Yang, la padrona di casa Mi Tzü, la signora Wung), ma non demeritano gli altri: Maurizio Cardillo (il primo dio, il barbiere Shu Fu, il tabaccaio Ma Fu), Andrea De Luca (il secondo dio, il poliziotto, il fratello Wung, il cameriere), Federico Manfredi (il falegname Lin To, l’omarel, la vecchia prostituta, il bonzo, il vecchio), Francesca Pica (la signora Ma Fu, la vecchia) e Valerio Pietrovita (il terzo dio, il nipote, il disoccupato, la giovane prostituta).
Chiudo con una premessa e una considerazione.
La premessa è che sono pochi, oggi, i teatranti che hanno coscienza e memoria di sé, e coscienza e memoria di quanto abbia contribuito a fondare e formare quel sé la lezione che hanno ricevuto dai loro maestri; e ancora meno sono i teatranti che hanno la voglia e la capacità di trasferire la lezione dei loro maestri negli spettacoli che portano in scena.
La considerazione, invece, è quella che faccio al riguardo. Io mi sono commosso, in occasione di questo spettacolo: mi sono commosso prima di vederlo, quando ho letto le parole scritte da Elena Bucci e Marco Sgrosso in epigrafe alle loro note di regia: «Il caso, che non è mai un caso, ci ha raccolto intorno a questo progetto per il primo giorno di prove il 18 settembre 2018, a dieci anni dalla scomparsa del nostro maestro Leo de Berardinis. A lui dedichiamo lo spettacolo, grati per tutto quello che ci ha insegnato»; e mi sono commosso ancora di più mentre questo spettacolo lo vedevo. Perché in esso circola, senza parere e pure fortissima e indomita, proprio la lezione di Leo: quella che si fondò sulla necessità di dar luogo, sempre, a un teatro che vada oltre il teatro, per fondersi con la vita; quella di un teatro che, per ripetere ancora una volta la definizione che un giorno me ne diede Strehler, sia «lo stare dell’uomo con l’uomo».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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