«La gioia» di Pippo Delbono, ovvero il vuoto dopo Bobò

Bobò e Pippo Delbono in un momento de «La gioia», presentato allo Storchi da Emilia Romagna Teatro ( le foto che illustrano l'articolo sono di Luca Del Pia)

Bobò e Pippo Delbono in un momento de «La gioia», presentato allo Storchi da Emilia Romagna Teatro
( le foto che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia)

MODENA – Mentre allo Storchi assistevo a «La gioia», lo spettacolo di Pippo Delbono prodotto da Emilia Romagna Teatro, mi è tornato in mente l’incontro che ebbi con Peppino Patroni Griffi quando lui, nel 2002, riallestì «Persone naturali e strafottenti». Parlammo a lungo, in un ristorante romano che accoglie i teatranti fino a notte inoltrata, di quel testo che tanto scandalo aveva suscitato al suo debutto, nel ’74. E convenimmo che «Persone naturali e strafottenti» risultava adesso ancora più attuale e inquietante di quanto risultasse allora: giacché, adesso, stavamo tutti un po’ come Violante, «con la mano tesa» a chiedere non sappiamo nemmeno che cosa. Di modo che, superate le «querelles» d’ordine omosessuale, lo scandalo autentico sollevato adesso dalla commedia stava nel fatto che Fred osasse dichiararsi felice e, come se non bastasse, gridare che «questo mondo è stato fatto per viverci».
Ecco, la stessa cosa può dirsi dello spettacolo di Delbono: è «scandaloso» perché osa portare sul palcoscenico una gioia che rappresenta l’esatto contrario di quella ridotta a una parola bugiarda dalla pubblicità e dal consumismo, di quella – dice Pippo in una sua nota – fatta «di famiglie felici, di bambini felici, di paesaggi felici. Tutto morto, tutto falso». E dunque, si capisce perché lo spettacolo in questione sia organizzato per opposti: sin dalla sequenza iniziale, una processione che deborda in platea sull’onda del valzer della «Masquerade» di Khachaturian e accoppia, poniamo, una zombi e una damina settecentesca con parrucca rossa, un ossesso che urla l’«I’ so’ pazzo» di Pino Daniele e una figura disegnata nel buio, come una costellazione, da un profilo di lucine azzurre che vogliono sembrare stelle.
Si può persino sognare, visto che Pippo, a un certo punto, si mette a ballare con la brutta copia di una soubrettina da avanspettacolo che, stracarica di fiori finti, cerca di passare – nell’eco della «Petite fleur» cantata da Martin Zarzar – per un esotico frutto dell’immaginario a metà fra una baiadera e una wahine polinesiana. Ma, infine, che cos’è la gioia per Pippo Delbono? E, più esattamente, che cos’è la gioia che Pippo Delbono descrive in questo spettacolo?
Per prima cosa, la gioia che Pippo Delbono descrive in questo spettacolo è quella che lui prova nel proseguire il viaggio con gli straordinari compagni che ancora una volta ci presenta: Nelson Lariccia ch’era un barbone strafatto di medicine, Ilaria Distante che adora il tango, Gianluca Ballaré ch’è un ragazzo down capace d’imitare alla perfezione Loretta Goggi che canta «Maledetta primavera»… e lui, sì, Bobò, il microcefalo sordomuto che Pippo trovò nel manicomio di Aversa e che ora è l’icona lancinante non solo della poetica di Delbono ma anche, in generale, del teatro complessivo degli ultimi decenni.
Fin qui, però, abbiamo parlato soprattutto di sentimenti. Ma è tempo di arrivare al discorso profondo che «La gioia» sviluppa al di là dell’emozione che desta. Ed è un discorso che viene introdotto dal passo dell’«Enrico IV» di Pirandello in cui compare un prete irlandese che sorride «immemore» fino a quando dorme al sole non sapendo più di essere prete, mentre, appena sveglio, si ricompone rigido nel suo abito talare e riacquista l’abituale serietà.
Si tratta di un passo che rimanda direttamente a quello dello stesso testo pirandelliano che più volte ho citato come la chiave per accedere al cuore dell’intera opera del Girgentino. Dico della battuta che Enrico IV rivolge al presunto Vescovo Ugo di Cluny: «Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti, così sfuggita da voi».

Gianluca Ballaré in un altro momento dello spettacolo

Gianluca Ballaré in un altro momento dello spettacolo

Questa battuta si riferisce al tentativo disperato, e perennemente vano, che compie l’uomo per imprigionare la vita, ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per giunta slegati l’uno dall’altro, in una Forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile. E dunque, Pippo Delbono ci dice, con il suo spettacolo, che la gioia consiste innanzitutto nell’affrancarsi da qualsiasi forma. Ce lo dice, in maniera icastica e come meglio non avrebbe potuto, quando, parlando di lui, dichiara che «dopo Bobò c’è sempre un vuoto».
C’è sempre un vuoto perché Bobò è un tutto che ingloba tutte le forme possibili e, perciò, tutte le neutralizza. Non ha passato e non ha futuro. Ha solo un presente che coincide solo con se stesso. E per questo, lui che ormai di anni ne ha ottantuno, in una delle sequenze più intense e significanti de «La gioia» può spegnere sulla torta candeline a ripetizione: per Bobò si tratta di festeggiare un compleanno interminabile, che cade in ogni momento di ogni giorno della sua vita.
A questo punto, si sarà capito che un’estrema coerenza viene stabilita tra lo spettacolo nel suo farsi e i testi che a quel farsi presiedono. Alle barchette di carta disseminate sul palcoscenico ad accogliere l’ingresso di Bobò corrisponde il «Padre nostro» riscritto da Erri De Luca: «Mare nostro che non sei nei cieli, / all’alba sei colore del frumento, / al tramonto dell’uva e di vendemmia. / Ti abbiamo seminato di annegati / più di qualunque età delle tempeste». E all’elogio del trapezista mutuato da Maria Bethânia fa da eco la preghiera che al Signore rivolge il clown di Totò: «C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri». E per chiudere con l’ultimo esempio in proposito, la dichiarazione di Pippo «dopo Bobò c’è sempre un vuoto» coincide con il verso di Franco Arminio «La gioia crea spazio, scioglie, fa il vuoto» e con quelli di Arthur Rimbaud: «Non esiste fiore migliore / di quello che s’apre nella pienezza / di ciò che è».
Al termine dello spettacolo dieci minuti di applausi frementi e commossi, con tutti gl’interpreti (oltre a Pippo Delbono, Bobò, Gianluca Ballaré, Nelson Lariccia e Ilaria Distante, ci sono Dolly Albertin, Margherita Clemente, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi e Grazia Spinella) chiamati più volte alla ribalta.
Io, guardando Bobò, ho risentito le parole che Leo de Berardinis rivolse ad Enzo Moscato nella dedica che apriva la «Quadrilogia di Santarcangelo» pubblicata dalla Ubulibri con la mia introduzione: «Il desiderio del tuo fragile corpo d’attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie, dal dolore e dal sorriso; un desiderio che è oltre ciò che avviene sulla scena, è intorno al tuo corpo, è in quei momenti in cui fai in modo che anche gli altri, gli spettatori, si pongano in ascolto in prossimità del silenzio».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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