Le «Rane» di Aristofane? Gracidano nell’avanspettacolo

Da sinistra, Salvo Ficarra e Valentino Picone in un momento delle «Rane» in scena al San Ferdinando

Da sinistra, Salvo Ficarra e Valentino Picone in un momento delle «Rane» in scena al San Ferdinando

NAPOLI – «Qui non c’è niente da ridere». Così Luca Ronconi riassunse, nel 2002, la sua idea di regia per le «Rane» di Aristofane che si apprestava a mettere in scena nel Teatro Greco di Siracusa. E certo alludeva, sì, alla profonda sostanza ideologica della celebre commedia, ma è lecito pensare che si riferisse anche, e soprattutto, al clima avvelenato (e civile e culturale insieme) che allora ci toccava. Infatti, fu costretto a togliere dallo spettacolo i previsti ritratti caricaturali dei politici italiani al potere (primo fra tutti Berlusconi) e a sostituirli con cornici vuote.
Riprendo, perciò, quanto scrissi delle «Rane» nella circostanza. La commedia fu rappresentata nel 405 a.C., un anno dopo la morte di Euripide e di Sofocle e mentre Atene si trovava ridotta allo stremo dall’esito infausto della guerra del Peloponneso. Ed è indubbio, quindi, lo stretto parallelo stabilito da Aristofane tra l’estinguersi della gloriosa tradizione tragica e il tracollo della città, morale e, giusto, civile, oltre che militare ed economico. Sicché assolutamente ed evidentemente metaforica appare la discesa di Dioniso nell’Ade per riportare in vita il suo poeta prediletto Euripide.
In breve, dietro i lazzi di questo viaggio agl’inferi – commentato, a un certo punto, dal beffardo coro delle rane di cui nel titolo – c’è l’intenzione di affidare alla poesia (e al teatro in specie) un compito che s’inscrive in uno statuto d’impegno non solo artistico, ma precisamente politico. E in proposito non potrebb’essere più esplicito, Dioniso, nell’indicare il motivo per cui è sceso nell’Ade a cercare un poeta: quel poeta, dichiara, lo va cercando «perché la città possa salvarsi e mantenere il suo teatro».
Solo apparentemente, dunque, Dioniso si contraddice, finendo per riportare in vita Eschilo invece che l’adorato Euripide. Perché Euripide è la passione, mentre Eschilo è, per l’appunto, un austero poeta civile, è colui che, non a caso, si scaglia contro Euripide con l’accusa: «[…] hai insegnato a coltivare la chiacchiera, che ha svuotato le palestre e consumato le chiappe di questi giovincelli parolai». Davvero, non anticipa, Aristofane, l’esatta situazione di oggi, in cui latitano – ad esclusivo vantaggio del blaterare sul vuoto – l’azione e il pensiero forte? E a che cosa fa pensare, poi, la rampogna contro «chi, da uomo politico, rosicchia la mercede ai poeti perché l’hanno messo in ridicolo nelle feste nazionali di Dioniso»?
Certo, sappiamo che Aristofane ce l’aveva con Archino e Agirrio, i quali, per vendicarsi dei poeti comici che li bersagliavano con la satira, avevano proposto in assemblea la riduzione della ricompensa (oggi parleremmo di sovvenzioni statali) a loro spettante. Ma sappiamo pure, mettiamo, dei continui attacchi ai giornali e ai giornalisti «irriverenti» che nei tempi attuali vengono da ben individuabili e individuate (leggi i Cinquestelle) parti politiche.

Ficarra e Picone in un altro momento dello spettacolo, diretto da Giorgio Barberio Corsetti

Ficarra e Picone in un altro momento dello spettacolo, diretto da Giorgio Barberio Corsetti

Niente di tutto questo, però, è dato riscontrare nell’allestimento delle «Rane» che ha aperto la stagione del San Ferdinando. Viene anch’esso dal Teatro Greco di Siracusa, in cui debuttò l’anno scorso, ma nemmeno lo sfiorano, il regista Giorgio Barberio Corsetti, le preoccupazioni che furono di Ronconi. La forma è quella di un divertissement che pesca un po’ nell’avanspettacolo, un po’ nella rivista, un po’ nel musical, in un profluvio di gag che appartengono molto poco ad Aristofane e moltissimo, invece, ai due mattatori in campo, i simpatici e bravi Salvo Ficarra e Valentino Picone.
Per capirci, ne dico solo una: la frecciata di cui sopra contro i politici che tagliano l’erba sotto i piedi ai comici che li bersagliano con la satira qui viene – invece d’essere sottolineata a dovere, come sarebbe stato necessario – diluita in una sequenza coreografica che occhieggia, piuttosto che i «misteri bacchici» evocati da Aristofane, i balletti tipici dei varietà televisivi. E insomma, gli spunti di denuncia politica restano quelli (e quello) che sono nel testo originale, senza che un loro aggiornamento li colleghi direttamente alla situazione specifica attuale al di là del fatto che, ripeto, a questa lascino pensare.
Parliamo, in definitiva, di uno spettacolo che, al di là di qualche lungaggine, ottiene il risultato che si prefiggeva, quello d’intrattenere, soprattutto per merito dei duetti e degli assoli messi in campo da Ficarra (Dioniso) e Picone (il suo servo Xantia). E spiccano, fra gli altri, anche Gabriele Benedetti (Euripide) e Roberto Rustioni (Eschilo), fedelissimi di Barberio Corsetti, mentre un adeguato sostegno all’insieme viene dalle allegre e coloratissime performances dell’ottima orchestra vocale SeiOttavi. Ma proprio in considerazione di una cornice formale siffatta si rivela poi appiccicata la proiezione conclusiva – su un piccolo schermo che cala dall’alto, e dunque quasi come un assolutorio «deus ex machina» – di un brano dell’intervista che nel 1968 il giovane Pasolini fece ad Ezra Pound.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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