Arriva un «revisore» vecchio, immobilizzato sulla sedia a rotelle

Aleksandr Kaljagin e Natalija Blagich in un momento de «Il revisore. Una versione» presentato dal teatro Et Cetera

Aleksandr Kaljagin e Natalija Blagich in un momento de «Il revisore. Una versione» presentato dal teatro Et Cetera

ROMA – Come sappiamo, della commedia «Il revisore» (altrimenti nota col titolo «L’ispettore generale») Gogol’ scrisse due versioni: quella che debuttò il 19 aprile 1836 nel teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo e quella, definitiva, che redasse a Roma nel 1841. E dunque, era in qualche modo obbligatorio che proprio nella nostra capitale arrivasse – ospite all’Argentina del Teatro di Roma, nell’ambito del festival «Stagioni Russe» – lo spettacolo «Il revisore. Una versione», prodotto, per la regia del georgiano Robert Sturua, dal teatro Et Cetera di Mosca. Un teatro fondato e diretto dallo stesso protagonista dello spettacolo, quell’Aleksandr Kaljagin che è celebre, fra l’altro, per aver interpretato nel 1977 il film di Michalkov «Partitura incompiuta per pianola meccanica».
Ma prima di procedere con l’analisi dell’allestimento in questione, faccio, come al solito, qualche accenno ai temi riscontrabili nel testo.
È la passione civile che, ne «Il revisore», nutre quella satira amara e spietata di un gruppo di corrotti funzionari di provincia, a tal punto sconvolti dalla notizia dell’imminente arrivo di un controllo dall’alto che scambiano per il famoso ispettore in parola un giovane e innocuo impiegatuccio, Chlestakov, in viaggio da Pietroburgo verso la tenuta paterna. Sicché aveva proprio ragione Vito Pandolfi quando, a proposito del capolavoro gogoliano, osservò che «offre un esempio difficilmente superabile di come il teatro possa intervenire nella vita di una Nazione, e motivarsi come suo lievito attivo».
Ugualmente decisiva, però, è la dimensione metaforica e addirittura metafisica del testo a cui accennò il grande Belinskij: il quale – nel collocare (e proprio grazie a «Il revisore») Gogol’ al di sopra di Molière – rilevò che, in quella commedia, l’intera azione drammaturgica si muove in funzione «di un fatto illusorio, di un fantasma». E tanto senza contare la trasposizione sul versante fiabesco del nulla incarnato dall’esistenza ineffettuale dei burocrati chiamati alla sbarra.
Insomma, «Il revisore» si muove fra l’astrazione e il realismo. E con ciò – ecco quel che fa di Gogol’ un autentico gigante della letteratura universale – incarna un sostanziale passaggio storico: fino a quel momento il teatro e, appunto, la letteratura avevano rappresentato i funzionari statali russi come figure incorporee, e sinanche circonfuse di eccelsa virtù; mentre, con «Il revisore», prendono campo, nel solco di Puskin, giusto la visione e la descrizione di quei funzionari in chiave realistica.
Del resto, fu lo stesso Puskin che suggerì a Gogol’ il soggetto della commedia, sulla traccia di un episodio realmente accaduto a Ustjuz e di cui il poeta aveva sentito parlare. Di modo che davvero non a caso sentiamo, nella sesta scena del terzo atto, che proprio di Puskin il presunto revisore si vanta d’essere amico.
Ebbene, la regia di Sturua rende tale mélange di astrazione e di realismo con una precisione e un’inventiva che non avrebbero potuto essere più illuminanti ed efficaci. A partire dall’impianto scenografico di Aleksandr Borovskij, che trasforma lo spazio dell’azione – circondato da pareti trapunte di alte finestre cieche e «abitato» di tanto in tanto solo da una sedia – in un equivalente delle piazze di De Chirico, per finire alla fisicità da bozzetto scultoreo che connota, nella circostanza, i personaggi di questa classica commedia di «tipi».

Da sinistra, ancora la Blagich, Vladimir Skvorcov e Cristina Gagua in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, ancora la Blagich, Vladimir Skvorcov e Cristina Gagua in un altro momento dello spettacolo

Ancora non a caso, infatti, Sturua si riferisce – vedi, in particolare, le pantomime inscenate dalle coreografie di Konstantin Mišin – ai meccanismi attorali caratteristici della Commedia dell’Arte. E il riferimento, mentre tiene conto di taluni spunti forniti in proposito dallo stesso testo di Gogol’ (basta pensare alla quinta scena del quinto atto, in cui Bobčinskij e Dobčinskij cozzano fronte contro fronte nell’atto di baciare contemporaneamente la mano ad Anna Andreevna), invera a sua volta una contingenza storica.
Son sicuro, voglio dire, che Eduardo Scarpetta – i cui testi sono molto schematici, in pratica, per l’appunto, dei canovacci affidati all’improvvisazione degl’interpreti – nella settima scena del secondo atto di «Miseria e nobiltà», quella giocata sull’imbarazzo dell’ex cuoco Gaetano Semmolone nell’invitare a pranzo coloro che crede principi e marchesi, ricalcò esattamente l’ottava scena del secondo atto de «Il revisore», quella centrata sul timore («non son degno, non son degno») del sindaco di offendere Chlestakov, il quale non aspetta altro che essere corrotto, proponendogli il trasferimento dalla locanda a casa sua.
In specie, poi, è sul versante dell’astrazione che lo spettacolo di Sturua tocca i vertici dell’eccellenza. Tanto per cominciare, Chlestakov, che nel testo di Gogol’ ha ventitré anni, qui è un vecchio che – immobilizzato dall’inizio alla fine su una sedia a rotelle con una coperta sulle ginocchia – parla con una stanca voce pigolante e di tanto in tanto s’addormenta. In breve, rientra anche lui, e a pieno titolo, nella paralisi morale che imprigiona quel piccolo mondo d’ignavi, votati solo a una vita larvale. E al contrario, i funzionari complici del sindaco, che nel testo di Gogol’ sono tutti di una certa età, qui diventano giovani, a significare che la corruzione non conosce differenze d’età. Mentre la serva Avdotija, che nel testo di Gogol’ non compariva nemmeno nell’elenco dei personaggi e veniva appena nominata un paio di volte, adesso sta in scena pressoché ininterrottamente, atteggiata come l’Igor del «Frankenstein Junior» di Mel Brooks a simboleggiare l’Erinni che incombe sul malaffare.
Il tutto, infine, si riassume ed esalta nella sequenza conclusiva. Nel bel mezzo della riunione che al canto del «Va, pensiero» verdiano festeggia il fidanzamento tra la figlia del sindaco Marja Antonovna e il presunto revisore nel frattempo involatosi con il borsone pieno delle mazzette elargitegli dai notabili, torna indietro, procedendo automaticamente, la sedia a rotelle su cui era immobilizzato Chlestakov. C’è sopra lo stesso borsone. E dalle quinte arriva a prenderselo un altro Chlestakov, assolutamente uguale al primo perché interpretato dallo stesso attore. Non abbiamo scampo, insomma. I falsi revisori continueranno ad arrivare. E una bianca piuma scende volteggiando dall’alto ad annunciarne il prossimo così come aveva fatto col primo.
Quella piuma è, peraltro, un segno evidentissimo dell’ironia impagabile con cui Sturua procede nella sua messinscena, in ossequio alla dichiarazione di Gogol’ secondo la quale il riso è l’unico personaggio ammodo della commedia. E per quanto riguarda quest’ultimo punto, mi limito a citare la sequenza della Anna Andreevna, la moglie del sindaco, che viene colta da uno strappo muscolare alla schiena mentre, ridottasi in sottoveste al primo accenno di corteggiamento da parte di Chlestakov, si struscia in ginocchio sulle gambe di lui.
Superfluo, per concludere, sprecare parole sulla prova superba offerta dagli attori: nel ruolo di Chlestakov, Aleksandr Kaljagin è semplicemente strepitoso; e fra gli altri vanno citati almeno Vladimir Skvorcov (il sindaco), Natalija Blagich (Anna Andreevna), Elizaveta Ryžich (Avdotija), Grigorij Starostin (Osip) e Cristina Gagua (Marja Antonovna). In definitiva, uno spettacolo che onora la grande tradizione teatrale russa proprio perché ne accoglie la lezione senza restarne scolasticamente prigioniero, ma piegandola agli stimoli e alle necessità dell’oggi.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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