Un amore «devastato» nella capitale dell’apocalisse

Leo de Berardinis in un momento de «Il cervello esploso» (foto di Angelo Turetta)

Leo de Berardinis in un momento de «Il cervello esploso» (foto di Angelo Turetta)

NAPOLI – Riporto la seconda puntata, pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», di una riflessione su Leo de Berardinis a dieci anni dalla morte.

Già, Sebastiano Devastato era da sempre in sospetto e in guerra col mondo. Si lamentava che gli battevano le mani dappertutto, da Saviano a Nola, mentre i suoi concittadini, i mariglianesi, continuavano ad osteggiarlo. E specificava che quei cretini dei democristiani non volevano dargli il Palazzetto dello Sport per un suo spettacolo. Ma lui gliel’aveva fatta vedere davvero: metti, quella sera che lui, in uno spettacolo in piazza, teneva in braccio una gallina – «’a vallina», diceva Sebastiano – e a un certo punto doveva lanciarla in aria e quella doveva scappare (perché le «valline» hanno le ali e possono volare e pure scappare) e invece gli tornava sempre in braccio e allora tutti i mariglianesi, compresi i democristiani, commentavano che Sebastiano Devastato era diventato proprio bravo e sapeva pure ammaestrare le «valline». E lui, del resto, adesso aveva pure un allievo, ma gli disse che per fare l’attore ci voleva il consenso dei suoi genitori e andò a casa sua per parlare col padre e la madre e quelli – siccome Sebastiano era anche barbiere – si fecero fare i capelli e se li fece fare pure il fratello del suo allievo e uno zio del suo allievo.
Persino Carmelo Bene, raccontava Sebastiano, lo voleva nella sua compagnia: ma lui sarebbe rimasto sempre fedele a Leo e Perla, perché Leo e Perla erano suo padre e sua madre. Però, aggiungeva, anche Giuseppe Bartolucci gli voleva bene e aveva detto che sarebbe venuto allo Spazio Libero, a Napoli, a vedere il suo spettacolo. E a questo punto io non ho bisogno di spiegare il significato dello spettacolo di Peppe Capasso e del titolo che gli era stato dato: «Napoli capitale dell’apocalisse». Né occorre spiegare perché la compagnia che lo dava s’era chiamata «Barbari vecchi e nuovi». Aveva detto tutto Sebastiano.
Mi viene in mente, a proposito del rapporto fra Leo e Sebastiano, una frase del «Dizionario minimo» compreso nel volume su «The Secret Room», lo spettacolo più noto dell’IRAA Theatre di Melbourne diretto da Renato Cuocolo e Roberta Bosetti: secondo loro, la bontà è la «capacità nel gioco di prendersi la parte del cattivo». E comunque, ecco qualche cenno di cronaca sulla sera «devastata» in parola.
«Stateve zitte, si no stasera ‘o spettacolo invece ‘e uno se ne fa zero. Ccà nun se trova ‘o cazone ‘e ‘n’attore».
Naturalmente, Sebastiano Devastato lo spettacolo cominciò a farlo molte ore prima: esattamente da quando, la mattina, uscì su «Paese Sera» un mio articolo su di lui. E appena arrivai allo Spazio Libero, mi abbracciò, mi baciò e mi raccontò che a Marigliano, allorché la madre – che faceva la maestra – era entrata in classe, gli scolari erano scoppiati in un lunghissimo applauso.
Sebastiano era un gran regista. E così, trovandomi nel ruolo dell’attore, non potei evitare una battuta: «Io qua non ho capito chi sia il vero capocomico, se Capasso o Devastato». Era il segnale che attendeva Sebastiano. Da quel momento, non esisté più niente, né Spazio Libero, né «Napoli capitale dell’apocalisse», né il pubblico, né il tempo, né la notte, né il giorno. Esisteva solo Sebastiano. Strappava gli oggetti di scena dalle mani degli altri interpreti, invadeva gli angoli, crollava nei fili dell’amplificatore, picchiava furiosamente sui muri con le palme e coi pugni. E quando Capasso lo avvertì che, se rompeva qualcosa, Vittorio Lucariello si sarebbe arrabbiato, un urlo sanguinoso uscì da quel grumo di nervi animaleschi e luciferini: «Nun me rumpite ‘o cazzo! Io sono il più grande attore del mondo… Giuseppe Bartolucci m’ha stampato, Enrico Fiore m’ha stampato… Sebastiano Devastato è il più grande di tutti!».
Già. Non è che i giornali «avessero parlato» di Sebastiano. Sebastiano «era» quei giornali, «era» quelle parole, «era» quelle firme. Sebastiano Devastato era un’immagine, l’immagine fissa e per sempre riconoscibile che lui inseguiva per imprigionarvi la vita grandiosa e terribile che gli sfuggiva (e tuttavia da ogni parte lo braccava) e che gli altri non avevano mai capito. E adesso non c’è bisogno che io analizzi lo spettacolo. Mi limito ad osservare che «Napoli capitale dell’apocalisse» presentava la stessa situazione di partenza ch’era stata di «Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto»: quella dell’intellettuale che tenta inutilmente (perché viziato da un atteggiamento «colonialistico») di svegliare dal loro torpore gli emarginati e gli esclusi.
L’intellettuale era fuori gioco esattamente al pari degli emarginati e degli esclusi che lui, l’uno dopo l’altro, liberava con la fiamma ossidrica dai teli di plastica che li avvolgevano. Non era più possibile alcun discorso, non era più possibile alcun progetto, non erano più possibili la sperimentazione o l’avanguardia teatrale.
Quando – su quel mare di detriti culturali eterogenei, da «Lacreme napulitane» (e Capasso diceva «E ce ne costa lacreme ‘sta Napule» e Devastato continuava a dire «E ce ne costa lacreme ‘st’America») alla «trance» da Madonna dell’Arco e alle volgarizzazioni scientifiche della televisione – si levava il «Requiem» di Verdi e Peppe e Sebastiano si avvinghiavano in una lotta feroce e oscura, ci veniva sbattuto in faccia e negli occhi e nel cervello – che cosa? – nient’altro che un brandello del nostro tempo, carne da macello senza misericordia, senza paura e senza vocazione.
Al termine, Sebastiano mi prese in disparte e sussurrò imperioso: «Mi devi fare un favore. Devi scrivere: Sebastiano Devastato non perdona ai mariglianesi». E la storia ricominciò. Come in «Mezzogiorno di fuoco»: solo che adesso, al posto di Gary Cooper, c’erano Totò e Raffaele Cutolo.
Poi non so che fine fece, Sebastiano Devastato. Ma immancabilmente si materializzava – fantasma di solitudine e d’amore – tutte le volte che in un teatro di Napoli c’era uno spettacolo di de Berardinis. Gironzolava, pudico e guardingo, nei dintorni dell’ingresso. E certo – se, incontrandolo, gli facevo: «Sei venuto a vedere Leo, eh?» – ribatteva puntualmente: «Quando mai! Che me ne importa, di Leo? Mi trovavo a passare di qua…». Proprio con la stizza di un amante abbandonato ma non rassegnato. A me, però, faceva ricordare il racconto di Arrigo Polillo sui «cugini» di Django Reinhardt, il grande chitarrista zingaro che, con la sinistra, faceva cose strepitose pur avendo il mignolo e l’anulare quasi completamente paralizzati da un incendio ch’era scoppiato nella sua roulotte. Sempre, quei «cugini», sostavano, avvolti nelle loro mantelle, nei pressi dei locali in cui suonava Django: «[…] al Club St. Germain, non avendo il danaro sufficiente per entrare, se ne stavano sul marciapiede, vicino alle prese d’aria per sentire attraverso di quelle un po’ della sua musica».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

                                                                                                                                        ( 2 – continua )

   («Corriere del Mezzogiorno», 15/8/2018)

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