Sisifo si fa in tre, lo assistono Buster Keaton e Kafka

Un momento di «Things that surround us» (le foto che illustrano l'articolo sono di Andrea Avezzù)

Un momento di «Things that surround us»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Andrea Avezzù)

VENEZIA – Una sedia, questa sedia. Un bicchiere, questo bicchiere. Un foglio, questo foglio. Un tavolo, questo tavolo…
Comincia così «Things that surround us (Le cose che ci circondano)», il secondo spettacolo della «personale» dedicata a Clément Layes dal quarantaseiesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale e diretto da Antonio Latella. I performer in campo girano in tondo ed enumerano gli oggetti in cui s’imbattono, prima definendone la «specie» (sedia, bicchiere, foglio, tavolo) e poi sottolineandone l’individualità e, quindi, la necessità «storica» (questa sedia, questo bicchiere, questo foglio, questo tavolo).
Ovviamente, mentre il girare in tondo traduce un’instabilità psicologica, l’elencare con puntiglio gli oggetti che incontra quel girare costituisce il tentativo irrinunciabile di ancorarsi all’unica certezza pensabile, fornita per l’appunto dalla consistenza fisica degli oggetti medesimi e dalla loro naturale immutabilità.
Ma anche gli oggetti riservano sorprese spiacevoli: una bottiglia, che dovrebbe contenere acqua, contiene invece sabbia, e questa cade in terra, dal fondo bucato, ogni volta che si solleva la bottiglia; il piano del tavolo scappa via dal suo supporto; la sedia si rovescia da un lato perché le cede una delle gambe… E insomma, viene continuamente meno la rassicurante «indiscutibilità» di quegli oggetti, ed esplode il rapporto senza imprevisti che con essi ci si era abituati a intrattenere.

Un altro momento di «Things that surround us»

Un altro momento di «Things that surround us»

In breve, nessuno di quegli oggetti riesce più ad assolvere la funzione che gli è propria, o che, almeno, gli era stata assegnata come propria. E quando i tre performer interpreti dello spettacolo puliscono il pavimento dalla sabbia caduta dal fondo bucato della bottiglia di cui sopra e la versano in una tinozza, scoprono che anche la tinozza ha il fondo bucato e debbono ricominciare da capo a pulire. Un’autentica fatica di Sisifo. Anche perché dagli stessi spazzoloni usati per pulire, via via sempre più grandi, escono sabbia e ogni sorta di altra polvere.
È, certo, una metafora della disattenzione colpevole che continuiamo a nutrire nei confronti dell’ecologia, una disattenzione sottolineata, peraltro, dalla pioggia di manufatti di plastica che ininterrottamente si riversa nello spazio scenico. E non meno chiaro è che i tre performer – gli straordinari Felix Marchand, Ante Pavic e Vincent Weber, che girano in tondo, a velocità sostenuta, per un’ora buona – chiamano ad assisterli un tale Buster Keaton. Ma soprattutto un altro nume tutelare presiede all’operazione.
Parlo di Kafka, del Kafka ch’è uno dei maggiori interpreti, nell’età moderna, della frattura tra la parola e il reale. Del Kafka per il quale – riprendo un’acuta osservazione di Giuliano Baioni – «le cose, perduto il segno del nome, ritornano all’uomo colme di una loro anonima, ostile, spietata oggettualità». E posso quindi chiudere le mie cronache dalla Biennale Teatro ribadendo ancora una volta la coerenza significante in cui s’è incarnato il tema («attore/performer») scelto quest’anno da Latella.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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