Videotape di un delitto, il detective è lo spettatore

Un momento di «How did I die» (la foto è di Andrea Avezzù)

Un momento di «How did I die» (la foto è di Andrea Avezzù)

VENEZIA – Lo sappiamo, il fondale di uno spettacolo lo vediamo quando il sipario si apre. Ma in «How did I die» – lo spettacolo che Davy Pieters ha presentato nell’ambito del quarantaseiesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale – lo vediamo (riproduce un bosco) quando il sipario si chiude, perché è su di esso che risulta dipinto quel fondale. Insomma, bisogna partire dalla fine per scoprire l’inizio.
Infatti, lo spettacolo della Pieters – olandese di appena trent’anni, al suo debutto sulla scena internazionale – si rivela come un vero e proprio videotape mandato avanti e indietro nel tentativo spasmodico di trovare la verità circa l’assassinio di una ragazza. E ogni volta che una sua sequenza viene riprodotta, ci troviamo di fronte a un particolare che prima non c’era. Sicché gl’interrogativi si moltiplicano incessantemente: perché l’amica della ragazza uccisa è partita all’improvviso? dov’è la tazza su cui potrebbero esserci tracce di Dna? e in definitiva, quale scegliere fra gli assassini e i moventi ipotizzabili?
Naturalmente, se i tre performer in campo (i bravissimi Klára Alexová, Nina Fokker e Joey Schrauwen) hanno il compito d’incarnare (alla lettera) il movimento in avanti o all’indietro del videotape in questione, allo spettatore tocca quello del detective. E qui scattano gl’interrogativi di fondo: in che modo si costruisce ciò che chiamiamo «verità»? quali sono le variabili che influenzano tale costruzione? come cambia la nostra percezione dell’evento su cui stiamo indagando a mano a mano che l’indagine ci fornisce su di esso sempre nuovi elementi di conoscenza?
Si capisce, dunque, che «How did I die» parte come un semplice gioco in chiave di «giallo» e approda a una dimensione filosofica: ovvero, come scrive la Pieters nel catalogo del Festival, al conflitto fra il desiderio e la realtà. Infatti, la giovane autrice e regista olandese – che ha realizzato lo spettacolo dopo aver studiato i metodi di lavoro della polizia scientifica di Amsterdam e il modo in cui i media hanno trattato casi celebri come quelli di Amanda Knox e Joran van der Sloot – sviluppa la messinscena intorno al bisogno delle persone d’«inventare una narrativa che dia un senso alle cose che non capiscono».
Senonché, ce ne rendiamo conto tutti, la causa, l’effetto e la conclusione logica individuati da quella «narrativa» finiscono inevitabilmente a scontrarsi con la potenza incontrollabile della vita: che per sua natura, sono sempre parole della Pieters, è «caotica e incomprensibile». E in questo consiste il fascino malato di «How did I die», nel fatto che sottolinea il destino per cui, specialmente oggi, più sappiamo e meno sappiamo.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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