Un Cechov che si attrezza
con notebook e giradischi

 

Paolo Serra e Gaia Aprea in una scena di «Zio Vanja»

Paolo Serra e Gaia Aprea in una scena di «Zio Vanja»

Dunque, Pierpaolo Sepe ha dichiarato che al centro del suo allestimento di «Zio Vanja», presentato al Mercadante dallo Stabile di Napoli, c’è «l’adesione totale di regista e attori alle vicende raccontate, una reale partecipazione emotiva». Ma con ciò siamo all’applicazione del metodo psicologico di Stanislavskij. Ed è fin troppo facile ricordarlo: proprio Stanislavskij riferì che – di fronte agli attori che piangevano, al termine della prima lettura di «Tre sorelle» – Cechov andò su tutte le furie, fino al punto di abbandonare la riunione.
Veniamo a noi, comunque. E sono costretto a ripetermi, giacché – fra Stabile e Napoli Teatro Festival Italia – con questo arriviamo al quarto «Zio Vanja» nel giro di appena nove mesi, dopo quelli di Konchalovskij, Savignone e Tuminas. Roba da Guinness.
Ripeto, allora, che per i personaggi di «Zio Vanja» – fantasmi che nascono e muoiono nel limbo della solitudine e della rinuncia – esiste, tra la nascita e la morte, unicamente la condanna a un ruolo, immutabile e perennemente inutile: quello di onesto amministratore della tenuta per zio Vanja, quello di umile ancella per la bruttina Sonja, quello di scienziato trombone per Serebrjakov, quello di «predatrice» per la sua insoddisfatta moglie Elena, quello di ecologista ante litteram per Astrov…
Di conseguenza, quei ruoli gli attori dovrebbero subirli; e invece, nello spettacolo di Sepe, i vari Giacinto Palmarini (Zio Vanja), Federica Sandrini (Sonja), Paolo Serra (Serebrjakov), Gaia Aprea (Elena) e Andrea Renzi (Astrov) li interpretano, e sulla base di una recitazione «recitata» di tono colloquiale e naturalistico che poi, nei momenti clou, giunge addirittura a rabbiose esplosioni da sceneggiata. E tanto, peraltro, in contrasto con l’ambientazione asettica fatta di tavoli e sedie stilizzati e di pannelli di plexiglas che calano dall’alto a determinare un labirinto di specchi.
Incongrue, per di più, la «vecchia balia» affidata alla non vecchia e ancora piacente Fulvia Carotenuto e la Vojnízkaja ridotta a una voce registrata trasmessa da un walkie-talkie. E quest’ultimo punto fa il paio con la chitarra di Teleghin sostituita da un giradischi e con il notebook adoperato da Sonja: è a simili (e scontati) aggiornamenti di superficie che si limita l’«attualizzazione» di cui parla nelle sue note il consulente alla drammaturgia Armando Pirozzi.
Lo spettacolo dura circa tre ore, compreso l’intervallo che, alla «prima», ha visto più d’una fuga.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 27 marzo 2015)

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