Servillo, o la parola che diventa musica

Toni Servillo in un momento di «Eternapoli», lo spettacolo dato al Teatro di San Carlo (le foto che illustrano l'articolo sono di Luciano Romano)

Toni Servillo in un momento di «Eternapoli», lo spettacolo dato al Teatro di San Carlo
(le foto che illustrano l’articolo sono di Luciano Romano)

NAPOLI – Riporto qui la riflessione su «Eternapoli» pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Credo che, magari senz’averne piena coscienza (senza, intendo, averne coscienza come di un progetto), Toni Servillo vada costruendo, al di là di quello ben noto di attore, il percorso più nascosto, ovvero meno continuo, di un artefice che, mescolando la recitazione con la musica, si prefigge lo scopo decisivo di far sì che la parola, smettendo d’essere un semplice (e inerte) significato, torni ad essere un probante (e vivo) significante. E di tanto è venuta una nuova dimostrazione con «Eternapoli», lo spettacolo che – su partitura di Fabio Vacchi e testo di Giuseppe Montesano – il Teatro di San Carlo ha allestito, con la direzione d’orchestra di Donato Renzetti, per le voci recitanti di Servillo, appunto, e Imma Villa.
Parliamo di un percorso che, intanto, è garantito da una rigorosa coerenza, perché cominciò nel 2004 con «Benjaminowo: padre e figlio», uno spettacolo che affiancava a un poemetto a due voci di Franco Marcoaldi nove Lieder composti proprio da Vacchi e che, proprio come la partitura da lui scritta per «Eternapoli», davano l’impressione di mulinelli ventosi trapunti d’irte dissonanze. E inoltre, «Eternapoli» rimanda a «Benjaminowo: padre e figlio» anche per quanto riguarda il testo: poiché, giusto, si conclude con le parole: «Il vento ci parla, arrivano le voci dei vivi e dei morti, le voci dei padri e dei figli».
Ma, come se non bastassero i suoi contenuti, aggiunge valore all’operazione il fatto che, sul piano teorico, sovrintendono ad essa due numi tutelari che si chiamano Antonin Artaud e Carmelo Bene. Il primo osservò: «Se la musica ha un effetto sui serpenti, ciò non è dovuto ai concetti spirituali che trasmette loro, ma al fatto che i serpenti stanno sdraiati e distesi al suolo in ampie spirali: cosicché il loro corpo lo tocca per quasi tutta la sua lunghezza, e le frequenze musicali che sono propagate attraverso il suolo li raggiungono come messaggi vibranti e indefiniti; bene, io intendo comportarmi con il pubblico come gli incantatori di serpenti e voglio che raggiunga tramite il corpo le nozioni più misteriose». E il secondo, ad esempio con l’opera (anche, e soprattutto, nel senso di melodramma) «Macbeth Horror Suite», neutralizzò il mercimonio del testo per l’appunto ricorrendo al corpo, inteso nelle sue immutabili e incoercibili funzioni fisiologiche.
Il corpo, infatti, è sano, e giusto perché – in assenza della rappresentazione – non resta coinvolto nella Storia e, dunque, non racconta niente. In breve, vive solo della sua immemore automaticità. Sicché ai frammenti del testo shakespeariano (e l’inenarrabile Carmelo, ovviamente, s’accollava tutti i personaggi, da Duncan al Capitano, da Ross a Banquo e persino alle Streghe) la leggendaria voce del gran Demiurgo dell’Afasia drammaturgica – che spesso trascorreva nel canto, sull’onda delle musiche verdiane – sottendeva un plateale, anarchico e rabelaisiano (s)concerto di borborigmi, rutti, peti, muggiti e quant’altro del genere si possa immaginare.

Un altro momento di «Eternapoli», con Renzetti, l'orchestra e il coro alle spalle di Servillo

Un altro momento di «Eternapoli», con Renzetti, l’orchestra e il coro alle spalle di Servillo

Ebbene, non s’intitolava proprio «Sconcerto», lo spettacolo (testo, ancora, di Franco Marcoaldi e musica di Giorgio Battistelli) che Toni Servillo presentò nel 2010 al Ravello Festival? E il suo personaggio protagonista, interpretato dallo stesso Servillo, non era un direttore d’orchestra che non riusciva a dirigere perché gl’intasavano la testa rovelli stitici e impastavano la bocca parole inani, quelle sconfitte del passato e quelle logore del presente?
Tuttavia il podio non l’abbandonava. E se nel testo di Marcoaldi le ultime parole pronunciate da quel direttore erano: «E l’orchestra? Eh, l’orchestra…», le ultime parole che pronunciava Servillo – mentre l’orchestra, muta, scompariva nel buio – erano: «Un’orchestra è un’orchestra». Insomma, la chiamava col suo nome, quell’orchestra che gli sfuggiva, e così la faceva esistere, e ridestava la musica perduta. E le parole ritrovavano l’antica fraternità col mondo che avevano smarrito ai tempi di Don Chisciotte, colui che fu, secondo Foucault, nient’altro che «scrittura errante».
L’alto approdo di questo percorso che va compiendo Toni Servillo sta, insomma, nel fatto che il mescolarsi delle parole con le note obbedisce non solo e non tanto allo scopo di mettere in campo uno straniamento allusivo, ma anche e specialmente alla volontà di ridestare il significante delle parole attraverso una ferrea e lucidissima interazione fra il testo, la musica e l’interprete. Così, in «Eternapoli», i passi estrapolati dal romanzo di Montesano «Di questa vita menzognera» venivano spinti a farsi puro suono, le note della partitura di Vacchi si tramutavano in vera e propria azione drammatica e i movimenti e i gesti dell’attore e dell’attrice diventavano un perfetto equivalente e di quei versi e di quelle note.
In definitiva, Servillo, che non a caso ha firmato la regia di diverse opere liriche, fa suo lo scopo per cui nacque il melodramma, quello di rendere la musica in forma drammatica; e contemporaneamente, persegue lo scopo inverso, quello di rendere la drammaturgia in forma musicale. Sicché invera il «surrealismo demoniaco» che appunto nel melodramma individuò Giorgio Vigolo. E qui, se il termine «surrealismo» va inteso nel senso di «soprarealtà», di realtà più elevata e intensa, l’aggettivo «demoniaco» rimanda al «dáimon» greco, l’essere mitico che faceva da intermediario fra l’umano e il divino.
Al termine di «Eternapoli», Imma Villa, degnissima partner di Toni Servillo, oppone alle menzogne del Calebbano, il quale annuncia il progetto di trasformare la città in un «museo vivente», le parole: «La notte sembra infinita, ma non è vero, ci stiamo svegliando». E quelle parole riescono a diventare persuasive proprio perché non pretendono di trasmettere di per sé una visione del mondo, ma, ponendosi come un’estensione delle note tra cui spasimano, assumono solo la natura di una delle tante voci del mondo. Una voce quale la intendeva Marguerite Yourcenar: nel suo prodursi, è puro suono, puro «significante»; e in altri termini, considerata in sé, è giusto l’inizio di un percorso.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 21/2/2018)

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