Il ritorno di Brook al «Mahabharata». Col pensiero alla Siria

Peter Brook

Peter Brook

NAPOLI – È in scena al Bellini lo spettacolo «Battlefield», firmato da Peter Brook. Ne ripropongo, con gli aggiustamenti imposti dalla cronaca, la recensione che scrissi nel maggio del 2016, quando lo vidi all’Argentina di Roma. 

Perché Peter Brook ha deciso di tornare dopo oltre trent’anni a quel «Mahabharata», il suo spettacolo più celebre ed emblematico, che nell’85 letteralmente sconvolse, e per nove ore di fila, il Festival di Avignone? Questa la domanda che ci si pone di fronte a «Battlefield», l’allestimento che il maestro anglo-francese, con l’assistenza di Marie-Hélène Estienne, ha ricavato per l’appunto dal «Mahabharata» sulla base del testo di Jean-Claude Carrière.
Ovviamente, il motivo è lo stesso che spinse Brook ad affrontare la prima trasposizione teatrale di quello che è il più lungo poema epico della letteratura universale (18 libri per complessive 110.000 strofe, qualcosa come sette volte e mezza l’Iliade e l’Odissea messe insieme). E lo dichiarò proprio lui, del resto: rappresentando la visione di una società lacerata sul ciglio dell’autodistruzione, il «Mahabharata» costituisce, sia pure in chiave mitologica, una prefigurazione della realtà corrente. Infatti, al debutto di «Battlefield» Brook disse: «Il nostro vero pubblico sono Obama, Hollande, Putin e tutti i presidenti».
Ma a questo punto, per capire sino in fondo tale affermazione e gl’intenti che presiedono a «Battlefield» (il titolo significa, altrettanto ovviamente, «campo di battaglia»), occorre riandare a ciò che è, in sé, il «Mahabharata», letteralmente «La storia della grande lotta dei Bharata». Il poema, attribuito dalla tradizione al leggendario personaggio Vyasa, narra lo scontro lunghissimo (dura diciotto giorni) e sanguinosissimo (provoca «dieci milioni di morti») fra i violenti Kauravas, i figli della tenebra, e i loro cugini esiliati Pandavas, i figli della luce. Però, ben al di là della trama, conta il fatto che nel «Mahabharata» si fondono, con il mito, la religione, il dibattito morale, la riflessione filosofica e la dottrina politica.
Perciò il monumentale allestimento di Brook poté ambire (e di fatto riuscire) ad essere un’«imago mundi»: in ossequio alla massima («Il teatro concentra la vita») su cui spesso il regista ama insistere. E se oggi, in margine a «Battlefield», Brook ha osservato che il tremendo risultato della lotta fra i Bharata «può far pensare a Hiroshima o alla Siria», vuol dire che il suo spettacolo, per parafrasare la massima citata, ambisce (e di fatto riesce) ad essere un autentico «theatrum mundi».
D’altronde, come suggerisce Krishna nel «Mahabharata», la vera lotta è quella che s’ingaggia con se stessi sul «campo di battaglia dell’anima». Di qui la presa di coscienza che dopo la carneficina elaborano entrambi i capi degli opposti schieramenti: il vincitore, Yudishtira, afferma: «La vittoria è una sconfitta», e lo sconfitto, il re Dhritarashtra, che ha perso tutti i suoi cento figli, confessa: «Avremmo potuto evitare questa guerra»; e di qui, per conseguenza, il monito rivolto da Brook ai «presidenti».
S’intende, poi, che tutto questo non poteva che inquadrarsi nel ben noto sistema espressivo che configura l’alto approdo del teatro brookiano: un sistema che non si affida a una consistenza letterararia, ma – per contro – a un impianto drammaturgico fortemente ritualizzato; e che, quindi, si traduce nella «povertà» dell’arredo scenico accoppiata con la straordinaria capacità di creare intorno agli scarni «segni» adottati un alone praticamente infinito di sensazioni e sentimenti: a partire, anche, dalle molteplici funzioni svolte dagli oggetti.
Non a caso, infatti, Brook accosta il «Mahabharata» all’«Amleto»: se nella sua «Tragédie d’Hamlet» quattro cuscini messi in piedi potevano alludere al monticello di terra accanto alla fossa scavata per Ofelia, qui una sciarpa avvolta intorno al collo di un attore può evocare un serpente e un drappo rosso steso in terra può diventare un verme. Mentre le panchette, le stesse che comparivano nell’allestimento dedicato al capolavoro shakespeariano, si trasformano volta a volta in giaciglio per morire o trono.
È perfettamente inutile, adesso, sprecare parole circa gli splendidi attori in campo, accompagnati dal percussionista Toshi Tsuchitori: Karen Aldridge, Jared McNeill, Edwin Lee Gibson e Larry Yando forniscono un esercizio di stile nello stesso tempo raffinato e lineare.
Tutto si tiene, allora. Nel saggio «Lo spazio vuoto», così Peter Brook tracciò la sintesi di quel che il teatro è per lui: «Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

P.S. Come si sarà notato, questo articolo non è corredato di foto dello spettacolo. E il motivo sta nel fatto che la produzione ha diffuso solo foto in cui compaiono gl’interpreti della prima edizione di «Battlefield». Dei quali, nell’edizione dello spettacolo che vediamo al Bellini, è presente unicamente Jared McNeill.

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