La stanza in un cielo nella Napoli senza tetto

Giuseppina Cervizzi in un momento de «Il cielo in una stanza» (foto di Salvatore Pastore)

Giuseppina Cervizzi in un momento de «Il cielo in una stanza» (foto di Salvatore Pastore)

COSENZA – «Ma è possibile che qua ogni cosa si deve sempre risolvere come una farsa, è possibile che in questa città, in questo Tafagno, dobbiamo finire sempre alla De Filippo?».
È questa, senz’alcun dubbio, la battuta-chiave de «Il cielo in una stanza», il testo di Emanuele Valenti e Armando Pirozzi che – in un allestimento prodotto dal Bellini e da 369 Gradi – la compagnia Punta Corsara ha presentato nel Teatro Morelli di Cosenza per la regia dello stesso Valenti e nell’ambito della stagione curata da Scena Verticale. E lo è perché dà conto, insieme, della forma e della sostanza dell’atto unico in parola, diviso in un prologo, sette scene e un epilogo e, davvero non a caso, definito dagli autori «commedia in bilico».
Si ride, infatti, e nello stesso tempo si riflette su problemi serissimi, ovvero sui (molti) vizi e sulle (poche) virtù della città chiamata Napoli e qui metaforicamente incarnata per l’appunto dal Tafagno, lo stabile costruito negli anni Cinquanta e crollato negli Ottanta perché lo avevano tirato su mettendo la sabbia al posto del cemento.
Vi abitano (o, meglio, vi sopravvivono) dei personaggi sotto vari aspetti emblematici. E fra loro spiccano – a tradurre le opposte concezioni della vita, del mondo e della società che a Napoli si scontrano da sempre – Alfredo Cafiero, il razionalista che vorrebbe far causa alla ditta costruttrice del Tafagno, e Salvatore Scognamiglio, il quale, soprannominato Alce Nero perché fissato con la religione degli indiani d’America, è invece il sognatore che vorrebbe risolvere il problema con un sacrificio rituale, uccidendo, nella circostanza, proprio l’avvocato assunto da Alfredo, giacché figlio del costruttore.
Come si vede, parliamo di un testo estremamente complesso e stratificato, ma che – aggiungo subito – riesce, per l’acume del progetto e l’agilità della scrittura, ad evitare le secche dell’intellettualismo e dell’ideologismo per approdare, appunto, alla dimensione in pari tempo colloquiale e allusiva tipica delle commedie eduardiane: non senza, però (ed è questo il pregio decisivo dell’atto unico di Valenti e Pirozzi), prendere le distanze dallo stesso Eduardo in quanto considerato e frequentato – giusta la battuta citata all’inizio, e sempre nell’ambito di un discorso metaforico – in maniera acritica e «fideistica».
Impagabili appaiono, al riguardo, tutta una serie d’invenzioni in ugual misura divertenti e intriganti, a partire dal personaggio di Arturo Speziani, detto il Sotterrato perché da dieci anni, ossia da quando crollò il palazzo, vive prigioniero delle macerie in compagnia delle zoccole: comunica attraverso il water e se n’esce con osservazioni «preistoriche» tipo «Stringi stringi, ccà ce vo’ ‘n’ato Ottobre Rosso». Mentre, ancora non a caso, le considerazioni rappresentative delle opposte concezioni della vita, del mondo e della società di cui sopra vengono affidate al ragazzo Enzuccio («[…] ci sentiamo vittime, ci sentiamo impotenti, ma lo siamo solamente perché abbiamo rinunciato a vivere») e per l’appunto ad Alce Nero («Rinunciare a uccidere chi ti sta uccidendo, cioè rinunciare a essere colpevoli quando si è attaccati, è come essere complici di chi ti fa del male»).
È il valzer pigro in cui continuano ad allacciarsi le due immarcescibili anime di Napoli, quella della retorica stancamente sentimentale e quella del velleitarismo confusamente ribellistico. E a questo, in definitiva, rimanda il titolo: allo scarto fra il cielo della canzone di Gino Paoli, che era la fuga dell’immaginazione verso la libertà, e per l’appunto il cielo della commedia di Valenti e Pirozzi, che al contrario è la constatazione della realtà immobile di quelle stanze prive del tetto.
Giustamente, quindi, Valenti punta, in quanto regista, sul (corsivo)mélange di realismo e astrattismo: da un lato le diatribe riconoscibilissime perché tipiche di qualsiasi condominio e dall’altro i percorsi di guerra attraverso un labirinto fatto di porte che si ritagliano nel vuoto. E se c’è qualche neo (per esempio, la scontata assimilazione dell’impresario edile a un vampiro), provvedono poi la spontaneità e la precisione degli interpreti (lo stesso Emanuele Valenti, Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Sergio Longobardi, Valeria Pollice, Gianni Vastarella e Peppe Papa, la voce registrata del Sotterrato) a garantire la tenuta dello spettacolo nel suo complesso.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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