Un «servo» che si vanta di molti padri ma non ha fatto figli

 

Da sinistra, Andrea Renzi e Lino Musella in un momento de «Il servo», in scena al Mercadante

Da sinistra, Andrea Renzi e Lino Musella in un momento de «Il servo», in scena al Mercadante

NAPOLI – A partorire «Il servo», lo spettacolo in scena al Mercadante, ci si son messi quattro produttori (Teatro Stabile di Napoli, Casa del Contemporaneo, Teatri Uniti e Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia) e due registi (Andrea Renzi e Pierpaolo Sepe). Ma, nella circostanza, è questione non tanto di constatare ancora una volta che la proverbiale montagna ha dato alla luce il solito topolino, quanto di rilevare che i componenti dell’inedita e mirabolante cordata produttiva in parola costituiscono un esempio luminosissimo dell’ecumenismo che fa rima con opportunismo.
Li distingue, assai spesso, l’occupazione di scambiarsi (naturalmente gli uni alle spalle degli altri) accuse feroci mischiate con insulti sanguinosi. Ed ora eccoli qui, tutti insieme, appassionatamente, sulla stessa barca: ad onta che quella faccia pericolosamente acqua, non abbia una rotta e nemmeno immagini porti, limitandosi a galleggiare – nella bagnarola della burocrazia e, quando va bene, del puro mestiere – sulla superficie stagnante degli scarsi e maledetti spiccioli che l’occhiuta carità dei politici distribuisce ai teatranti amici o, quanto meno, acquiescenti.
Forse è meglio sostituire con «disperatamente» il suddetto «appassionatamente». E poi, non basterebbe un intero esercito di filologi comparatisti per fornirci una guida nella selva delle molte fonti e conseguenti paternità autorali di cui si vanta quest’allestimento: il romanzo breve, appunto «Il servo», pubblicato nel 1948 da Robin Maugham, nipote del ben più grande e noto Somerset; l’adattamento teatrale che ne fece dieci anni più tardi lo stesso Maugham; e infine l’omonimo e celebre film che Joseph Losey ne ricavò nel 1963. Per mio conto, mi limito a riferirmi a «Il servo» di Losey, il più importante e significativo fra gli «oggetti» elencati anche, e soprattutto, perché garantito dalla sceneggiatura che giusto dal romanzo di Maugham trasse un signore che si chiamava Harold Pinter.
La storia la conoscete. Tutto ruota intorno al rapporto ambiguo e all’oscura attrazione reciproca che via via si stabiliscono fra Tony, un giovane debole, viziato e privo d’interessi che è l’ultimo discendente di una ricca famiglia inglese, e Hugo Barrett, da lui assunto come domestico quando è andato a vivere da solo. A poco a poco l’efficienza di Barrett in quanto maggiordomo si trasforma in una vera e propria dittatura. Hugo crea il deserto nell’esistenza di Tony, scacciandone la fidanzata e, alla fine, rinchiudendosi per sempre, insieme col suo padrone/schiavo, in quella dimora sbarrata.

Dirk Bogarde in una scena del film di Losey, «Il servo», sceneggiato da Harold Pinter

Dirk Bogarde in una scena del film di Losey, «Il servo», sceneggiato da Harold Pinter

Ma, ovviamente, Pinter e Losey capirono subito ciò che si nascondeva sotto questa trama. E possiamo rendercene conto anche noi, e altrettanto immediatamente, se solo consideriamo due fatti, fra loro concatenati e davvero non casuali: «Il servo» sancisce il successo internazionale del regista dopo il suo allontanamento dagli Stati Uniti in seguito all’accusa di attività antiamericane e rappresenta l’inizio di una collaborazione fra Losey e Pinter che produrrà, nell’ambito di una sintomatica trilogia, ancora due film quant’altri mai emblematici, «L’incidente» del 1967 e «Messaggero d’amore» del 1971.
Si tratta di due fatti che portano, in perfetta sintonia, all’analisi esaustiva che Losey fece del romanzo dal quale trasse il suo film: «Per me “Il servo” è la storia di gente di origini diverse presa nella stessa trappola, è la storia di questa trappola: la casa e la società in cui vivono».
In altri termini, la servitù di cui parla Maugham e la degradazione progressiva che ne discende finiscono a rivelarsi, e ben al di là dei risvolti psicologici del plot, come i dati storici di un’epoca e le cartine di tornasole dell’assetto sociale che essa ha prodotto. Tony e Barrett incarnano, dunque, delle semplici escrescenze metaforiche di un quadro generale. E non ha alcun senso, perciò, collocare quei due personaggi sul piano del realismo e della narrazione in sé, chiamando in causa, al loro riguardo, classificazioni manicheistiche o, peggio, attestandosi sul versante del pamphlet di costume.
Invece, è proprio questa la cornice in cui si colloca la regia di Renzi e Sepe, con l’aggiunta di talune invenzioni che più incongrue non potrebbero apparire. A cominciare dalla sequenza iniziale, una sorta di prologo: si apre il sipario e vediamo, nella scena in penombra, i due protagonisti immobili, mentre rimbomba per vari minuti la marcia tratta dal film di Stanley Kubrick «Arancia meccanica»; poi il sipario si chiude, si riapre e comincia la rappresentazione.

Stanley Kubrick sul set di «Arancia meccanica»

Stanley Kubrick sul set di «Arancia meccanica»

Andrea Renzi, nella curiosa veste di portavoce, ha dichiarato ai giornali che, con quell’invenzione, Sepe «ha voluto rimarcare il rapporto del testo con la nostra contemporaneità». Ed io vorrei chiedere a Renzi se gli risulta che i componenti delle «baby gang» di oggi somiglino in qualche modo ai «drughi» del film in questione, se, in particolare, il capo di una qualsiasi di quelle «baby gang» somigli in qualche modo ad Alex, il teppista-dandy capo dei «drughi», e se, infine, l’ipotetico equivalente odierno di Alex ascolti come lui «Ludovico Van», ossia Beethoven, o non piuttosto Luciano Caldore o Tony Colombo.
D’accordo, queste domande dovrei rivolgerle a Pierpaolo Sepe e non al suo portavoce. Ma il fatto è che Sepe mi fa un po’ paura. È un sadico. E io non sono ancora guarito dall’orrore che mi destò, nel 2001, il suo allestimento di «4:48 psychosis» di Sarah Kane in cui c’inflisse un quarto d’ora di nudo integrale di Monica Nappo. Così non saprò mai da Sepe, giusto il principio della reciprocità, quali siano le invenzioni da attribuire a Renzi: la fidanzata di Tony che si masturba, la reiterata corsa della stessa verso il proscenio a premere con le palme un’invisibile parete, i soliti cambi di scena a vista?
Niente, sappiamo solo che, naturalmente, c’è la marcia di «Arancia meccanica» ma non c’è nemmeno l’ombra di un qualsiasi riferimento alle molteplici valenze del testo di Burgess sotteso al film di Kubrick: dall’evasivo «nonsense» alle mitologie fantascientifiche, dall’analisi sociologica al pamphlet politico, dalla parabola sul temi della colpa e della responsabilità nel sistema comunitario moderno alla ripresa, nella scia di Orwell e Huxley, della tradizione distopica, vale a dire dell’utopia alla rovescia.
Qui s’accampa unicamente, a voler essere (molto) generosi, il tono andante (e, per la verità, noioso) di una classica «conversation play» da West End londinese. Ed è in tale ambito che va collocata la prova degl’interpreti: lo stesso Renzi (Tony), Lino Musella (Barrett), Tony Laudadio (Richard Merton), Maria Laila Fernandez (Vera e Mabel) ed Emilia Scarpati Fanetti (Sally Grant).
P.S. La megaproduzione di questo spettacolo non ha ritenuto di far scattare qualche foto di scena dell’edizione attuale dello stesso: sono state diffuse le foto che Laura Micciarelli scattò per l’edizione presentata nel corso del Napoli Teatro Festival Italia 2016. Infatti, Andrea Renzi portava, allora, i baffi e il pizzetto che adesso non ha più.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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