Gioco di massacro a tre sul ring del grottesco

Maria Paiato in un momento di «Play Strindberg», in scena al Bellini ancora oggi e domani (le foto dello spettacolo sono di Simone Di Luca)

Maria Paiato in un momento di «Play Strindberg», in scena al Bellini ancora oggi e domani
(le foto dello spettacolo sono di Simone Di Luca)

NAPOLI – Lo sappiamo, purtroppo: nell’acciaccato teatro d’oggi dilagano le riscritture di testi famosi, e si tratta, solitamente, di operazioni assai discutibili, quand’anche non sfocino in veri e propri aborti. Ma stavolta è in scena al Bellini un’eccezione, una magnifica eccezione. Perché – grazie a un allestimento prodotto dallo Stabile del Friuli Venezia Giulia, da Artisti Riuniti e dal Mittelfest – ci si offre l’occasione di assistere a «Play Strindberg», la riscrittura (più esattamente, la reinvenzione) di «Danza macabra» ad opera di un signore che si chiamava Friedrich Dürrenmatt.
Era il 1969, al Teatro di Basilea stavano procedendo verso la messinscena, appunto, di «Danza macabra». E il drammaturgo svizzero, insoddisfatto delle traduzioni e degli adattamenti del celebre testo di Strindberg fin lì apparsi, decise di provvedere in prima persona ex novo. Anche perché, essendo membro della direzione del Teatro, la faccenda lo riguardava direttamente. E vediamo, dunque, in che cosa sono diversi l’originale di «Danza macabra» e la sua rielaborazione, giusto «Play Strindberg».
«Danza macabra» (o «Danza di morte»), scritta nel 1900 e messa in scena (con l’aggiunta di una seconda parte) per la prima volta a Colonia nel 1905, è certamente una delle opere maggiori del drammaturgo svedese. Ed è anche una delle più rappresentative di Strindberg in quanto iniziatore di quella che poi si chiamerà «drammaturgia dell’io».
Infatti, vi agiscono come protagonisti il capitano d’artiglieria Edgar e sua moglie Alice, i quali, relegati da quindici anni su un’isola, risultano perennemente impegnati in una sorta di crudele e perversa seduta psicanalitica: spinti da odio e incomprensione reciproci, cercano di sopraffarsi a vicenda rinfacciandosi senza pietà le rispettive colpe e ingratitudini. E l’arrivo del cugino di Alice, l’ispettore di quarantena Kurt che stabilisce con lei una morbosa relazione, ha il solo effetto di acuire quella tensione e di portare alla luce le accanite persecuzioni di Edgar verso la moglie e le lotte feroci che i due coniugi hanno da sempre ingaggiato per disputarsi l’affetto dei figli. Alice esulta quando il marito viene colto da una sincope, e in fondo non fa che attenderne ansiosamente la morte, la quale verrà (nella seconda parte aggiunta al testo del 1900) dopo che Judith, la loro figlia così simile a Edgar, rifiuta (contro il volere del padre) le nozze con il Colonnello e se ne va con Allan, il figlio di Kurt.

Friedrich Dürrenmatt

Friedrich Dürrenmatt

Quindi, siamo di fronte a uno strenuo rifiuto del naturalismo (basti pensare che il lavoro è connotato da una costante ironia, tanto da essere stato definito «caricatura di una tragedia») e, per contro, alla presenza significativa dell’autobiografia: Alice è un’ex attrice, così come un’attrice era Harriet Bosse, la terza moglie di Strindberg; e non a caso, del resto, fu lo stesso Strindberg a dire, giusto in un’intervista a proposito della sua famosa autobiografia («Il figlio della serva»), che «ognuno conosce una sola vita: la propria».
Ecco, allora, che la struttura del dramma classico lascia il posto a tutto ciò che in seguito diventerà il centro di buona parte del teatro e del cinema contemporanei: il gioco del massacro e il delirio della coppia che si azzanna e si sbrana in pubblico. Insomma, a sottolineare l’importanza anticipatrice di «Danza macabra» può bastare un solo esempio: Bergman, nel girare il suo splendido «Scene da un matrimonio», ha sicuramente guardato a quel testo.
Ebbene, venendo adesso a «Play Strindberg», è facile constatare che in quella rielaborazione di «Danza macabra» riconosciamo perfettamente l’autore, appunto Dürrenmatt, del quale Italo Alighiero Chiusano scrisse, fra l’altro, che con lui «il teatro tedesco del dopoguerra ha trovato una voce di risonanza mondiale: voce assurda, stravagante, a volte mostruosa, ma molto spesso ricca di vera e originale poesia».
In pratica, siamo di fronte – e il testo in parola ne incarna un’efficace dimostrazione – a un drammaturgo che mescola (con esiti abbastanza inediti, almeno nell’Europa della seconda metà del Novecento) Brecht, Beckett e Ionesco, il tutto condito dal caratteristico surrealismo di marca svizzera. In altri termini, il teatro di Dürrenmatt è costituito da un composito universo ideologico, tematico e formale che accoglie, insieme, la critica del sistema capitalistico e della società borghese, la tensione morale, la crudeltà generalizzata (a partire da quella che s’identifica con l’apparato statale), l’espressionismo, l’umorismo alla Wedekind, l’andamento da vaudeville alla Kaiser, l’amarezza che fa rima con la frivolezza, l’irrazionalità, il disordine e – combinati per l’appunto con l’assurdo – il surreale e il grottesco. E qui di seguito propongo (utilizzando la traduzione di Luciano Codignola) qualche esempio di come un simile mélange si traduca in «Play Strindberg».
Se in «Danza macabra» Edgar dice ad Alice: «[…] ma ce la siamo spassata, qualche volta!», in «Play Strindberg» Alice replica: «Te lo immagini tu». Quello che in «Danza macabra» era un semplice rimpianto di Alice per il suo passato di attrice («[…] pensa se fossi rimasta in teatro! Tutte le mie amiche adesso sono delle dive!») in «Play Strindberg» diventa il dialogo: Alice: «Se non ci fossimo sposati, farei ancora del teatro» – Edgar: «Tanto meglio per il teatro» – Alice: «Ero un’attrice famosa» – Edgar: «I critici non lo sapevano» – Alice: «I critici sono delle canaglie» – Edgar: «Non degli idioti». E seguono, come uno specchio che moltiplica il primo, questi altri due dialoghi: Edgar: «Mi hai sposato per vantarti di me» – Alice: «Come facevo, a vantarmi di te?» – Edgar: «Ero un celebre scrittore di cose militari» – Alice: «Non ti conosceva un cane»; e: Alice: «M’hai sposata solo per vantarti di me» – Edgar: «E io come facevo, a vantarmi di te?» – Alice: «Ero una celebre attrice» – Edgar: «Non ti conosce più un cane».

Da sinistra, Franco Castellano e Maurizio Donadoni in un altro momento di «Play Strindberg»

Da sinistra, Franco Castellano e Maurizio Donadoni in un altro momento di «Play Strindberg»

Decisivo, poi, è il fatto che Dürrenmatt cambia completamente (parliamo sempre della stesura di «Danza macabra» datata 1900) il finale di Strindberg. Quest’ultimo ci aveva mostrato un Edgar e un’Alice che si apprestavano, sia pure con il fiele in bocca, a festeggiare le loro nozze d’argento. Dürrenmatt ci mostra un Edgar che, rimasto paralizzato, non può parlare e mugola soltanto. Mentre Alice fa eco al suo mugolare cantando i versi della «Canzone di Solvejg» che dicono: «E tu ritorni a me, / sicuro tu sei mio, / sicuro tu sei mio, / io lo promisi un dì, / t’attendo ora fedele, / t’attendo ora fedel».
Terribile. Ma l’acme folgorante di «Play Strindberg» sta nella battuta di Edgar: «Devo vivere, anche se non mi va». Dürrenmatt anticipa così, di cinque anni, quella che sarà la battuta-chiave de «La forza dell’abitudine» e dell’intero teatro di Thomas Bernhard: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere».
Non trascurabile, infine, è anche il fatto che, ad aggiungere straniamento a straniamento e sarcasmo a sarcasmo, Dürrenmatt dà al testo (che perciò ha il sottotitolo «Knock-out») la forma dichiarata di un incontro di pugilato, sulla distanza di undici riprese debitamente annunciate dal gong. E Franco Però, il regista dell’allestimento di «Play Strindberg» in programma (ancora oggi e domani) al Bellini, s’attiene a questa forma con una fedeltà che viene spinta fino all’iperbole: al posto della zona circolare che, secondo la didascalia di Dürrenmatt, delimita il luogo dell’azione, qui, nell’impianto scenografico di Antonio Fiorentino, campeggia un vero e proprio ring; e fra le sue corde risulta imprigionato il salotto di Edgar e Alice, debitamente dotato, a configurare un proverbiale «sacrario» borghese, di divano e poltrona capitonné e di tavolino da gioco.
Si capisce, di conseguenza, che il tono prevalente della rappresentazione vira verso un grottesco che non di rado si traduce in scoperta, e sia pur livida, comicità. E data una siffatta dimensione, si capisce pure che il gioco sta tutto nelle mani degl’interpreti: Franco Castellano (Edgar), Maria Paiato (ovviamente Alice) e Maurizio Donadoni (Kurt). Tutti molto bravi, ma con un punto in più a favore della Paiato. Non sarà facile dimenticare il sorriso serafico che le aleggia sulle labbra mentre spara le sue bordate di veleno.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *