Al tè delle cinque è invitato anche Falstaff. En travesti

Un momento de «Le allegre comari di Windsor», in scena al Bellini nell'ambito del progetto Glob(e)al Shakespeare

Un momento de «Le allegre comari di Windsor», in scena al Bellini nell’ambito del progetto Glob(e)al Shakespeare

NAPOLI – Finalmente sono riuscito a vedere qualcosa di «Glob(e)al Shakespeare», il progetto di Gabriele Russo che – consistente in sei testi del Bardo («Le allegre comari di Windsor», «Tito Andronico», «Racconto d’inverno», «Otello», «Giulio Cesare» e «La commedia degli errori») riscritti, nell’ordine, da Edoardo Erba, Michele Santeramo, Pau Miró ed Enrico Ianniello, Giuseppe Miale di Mauro, Fabrizio Sinisi, Marina Dammacco, Emanuele Valenti e Gianni Vastarella – era già stato presentato nel corso del Napoli Teatro Festival Italia e in questi giorni apre la stagione del Bellini.
Ho visto, ieri sera, i primi due degli allestimenti in questione, «Le allegre comari di Windsor» per la regia di Serena Sinigaglia e «Tito Andronico» per la regia dello stesso Gabriele Russo. E cominciamo da «Le allegre comari di Windsor» e dall’affermazione capitale contenuta nelle note di regia della Sinigaglia e riferita a Falstaff: «Da lui tutto comincia e con lui tutto finisce». Dunque, diciamo in breve chi e che cos’è quel celeberrimo personaggio.
Falstaff, lo sappiamo, vide la luce in un dramma storico, la prima parte dell’«Enrico IV» scritta sotto specie di seguito del «Riccardo II»; e tornò anche nella seconda parte, l’«Enrico V», in cui il debordante (in tutti i sensi) ciccione muore fra le braccia di Mrs Quickly in quella stessa osteria ch’era stata teatro delle sue ribalde e comicissime imprese. Finché ricomparve per l’appunto ne «Le allegre comari di Windsor», la commedia che, com’è noto, pare sia stata scritta per compiacere la regina Elisabetta, la quale aveva espresso il desiderio di rivedere Falstaff, anziché coinvolto in avventure militari, impegolato in faccende amorose.
Ma è noto anche (lo hanno rilevato, da Mario Praz a Gabriele Baldini, tutti i maggiori esperti di letteratura inglese) che il Falstaff delle «Merry Wives» è un fantasma stupido e sciatto, appena la brutta copia di «quello autentico – sono giusto parole di Baldini – che troneggia (…), magnifico e superbo, nei dieci lunghi atti del “Henry IV”».
Vale, però, il probante giudizio di Croce circa il Falstaff originario: «Quel suo gran corpo, quella sua vecchia carne di peccatore, quella sua compiutissima esperienza di bettole, di lupanari, di mariuoli e mariuolerie complica, ma non abolisce l’anima sua di fanciullo viziatissimo». Ed è a quel giudizio che, senz’alcun dubbio, si riferisce la Sinigaglia quando, sempre nelle note di regia, dice di Falstaff che «nella sua evidente “decadenza” si rispecchia quanto di più umano e disarmato si possa concepire».

Le cinque interpreti de «Le allegre comari di Windsor» in scena al Bellini

Le cinque interpreti de «Le allegre comari di Windsor» in scena al Bellini

Proprio così. Parliamo di un personaggio che oscilla fra l’«alto» della sua natura profonda e il «basso» di una quotidianità fatta d’ignavia e degrado. Tanto è vero che la splendida regia firmata da Ronconi per il «Falstaff» di Boito e Verdi si fondava, per l’appunto, sul dispiegarsi di un movimento continuo dall’alto verso il basso e viceversa. E questo si verificava, a mo’ di annuncio programmatico, già nella prima sequenza: quando, a un Falstaff schiacciato a terra su una poltrona sfondata, corrispondevano due personaggi a mezz’aria: l’uno che calava appeso a delle corde e l’altro sollevato nel cestello dal braccio telescopico di un «ragno».
Del resto, il riferimento al melodramma in questione è reso obbligato dal fatto che nello spettacolo della Sinigaglia ricorrono dall’inizio alla fine, registrate o eseguite dal vivo con una fisarmonica, proprio le note di Verdi. E risulta obbligato, di conseguenza, pure un breve cenno su quella partitura, che, datata 1893, fu – sappiamo anche questo – l’ultima del genio di Busseto.
Vi si colgono reminiscenze di Mozart, Beethoven e Weber che, nella scia del romanticismo tedesco, contribuiscono a creare, sul ciglio del tramonto del grande compositore, il linguaggio che procura la soluzione del problema costituito dall’esigenza per cui era nata l’opera lirica, quella di rendere la musica in forma drammatica. E giustissimo, quindi, è ciò che ha scritto al riguardo Claudio Sartori: «L’elemento tematico (simbolico-musicale) vero e proprio non esiste; vive invece un testo che si realizza vocalmente e strumentalmente in una fusione unitaria, dove a volte le voci dei cantanti possono scendere a far parte dell’orchestra o gli strumenti possono salire a invadere la scena».
È proprio l’oscillare fra l’«alto» e il «basso» sottolineato da Croce e da Ronconi e intuito dalla Sinigaglia. E dico che la Sinigaglia l’ha solo intuito perché, poi, il suo spettacolo si attesta unicamente sul versante del «basso»: a cominciare dal fatto che qui le interpreti in campo si accollano anche i personaggi maschili, di modo che Falstaff, impersonato dalla stessa attrice che impersona Mrs Quickly, deve giocoforza rinunciare a morire fra le braccia di quest’ultima come nella citata seconda parte dell’«Enrico V» shakespeariano.
Questo finale tragico viene sostituito da un abborracciato pistolotto assolutorio in memoria dell’anarchico ciccione. E per il resto s’accampa un’innocua caricatura dei modelli costituiti dalla «drawing room comedy», la tipica commedia salottiera inglese fondata sul dialogo spumeggiante, e dalla «sophisticated comedy» di stampo hollywoodiano. Ma il risultato è che, tanto per fare solo un esempio, la riscrittura di Erba propone il plateale doppio senso di un «uccellare» per dire il correre la cavallina e il contraddittorio «andare ad uccelli» per dire la stessa cosa. Ricordo che la ben più notevole riscrittura di Orazio Costa Giovangigli – realizzata nella stagione 1976-’77 per un allestimento de «Le allegre comari di Windsor» con Tino Buazzelli nel ruolo di Falstaff –  si compiva soprattutto al livello linguistico, attraverso contrazioni, corruzioni o dilatazioni delle parole che, sempre per fare un esempio, sfociavano in una battuta come «Si è infezionata a lui», adottando la versione distorta del verbo inglese «to affection» che vale «provare affetto per».
Concludiamo, via. L’impianto scenografico di Federica Pellati accoglie l’atmosfera del proverbiale appuntamento delle cinque britannico, connotato da teiera e tazze ma anche, tanto per dare un tocco di contemporaneità, da un ventilatore. E ci sono pure qualche passo in dialetto veneto, un eclatante sedere posticcio attribuito a Mrs Quickly e l’happening col pubblico, in cui gli uomini debbono gridare «ruzzola» e le donne «pizzica».
Brave, comunque, risultano le interpreti: Mila Boeri, Annagaia Marchioro, Marta Pizzigallo, Virginia Zini e Giulia Bertasi. Ma, lo avete capito, intendo brave sul piano del puro e semplice intrattenimento. Risatine sparse tra gli spettatori.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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