Quel poeta che abitava in tre lingue come sui tre piani di casa

Mimmo Borrelli in un momento de «Il sommo poeta del Petraro», che ha aperto la terza edizione dell'«Efestoval»

Mimmo Borrelli in un momento de «Il sommo poeta del Petraro», che ha aperto la terza edizione dell’«Efestoval»

BACOLI – L’aula di una scuola abbandonata da tempo, con la lavagna, la cattedra e i banchi coperti alla men peggio da teli di plastica. Ma vi sopravvivono dei libri: su un piccolo scaffale, in buste per la spesa e sul pavimento. E sono la voce che continua a parlare anche nel vuoto della dismissione.
Questa la scena de «Il sommo poeta del Petraro», lo spettacolo di Mimmo Borrelli che nell’ex scuola elementare di Cappella, una frazione di Bacoli, ha aperto la terza edizione di «Efestoval», la rassegna itinerante dei Campi Flegrei da lui ideata e diretta. E si tratta di una scena che riassume come meglio non si sarebbe potuto gli scopi e i temi dell’allestimento e, insieme, dell’«Efestoval» nel complesso: a partire dalla caratteristica decisiva che alla rassegna ha conferito Borrelli, quella di un vero e proprio laboratorio linguistico.

Michele Sovente

Michele Sovente

Qui s’immagina un alunno (Domenico Borrelli, il quale asserisce di non essergli parente e di non conoscere nemmeno Mimmo Borrelli) che deve svolgere un tema sul poeta Michele Sovente, nato e vissuto per l’appunto a Cappella. Ma, naturalmente, è solo un pretesto per dar luogo a un confronto – e, più esattamente, a un abbraccio – fra i versi di Borrelli e quelli di Sovente, che al primo, diciassettenne, fu presentato dal suo professore di lettere Ernesto Salemme, il fratello di Vincenzo adesso seduto dietro la cattedra a sorvegliare lo svolgimento del tema da parte di Mimmo e ad intervenire di quando in quando con spunti teorici sulla lingua straordinaria del «poeta del Petraro» e su Vico, il filosofo a lui vicino.
Come vediamo, la finzione cede ben presto il passo alla realtà, e il presente si mescola incessantemente col passato. Perché è la memoria l’approdo salvifico a cui si tende. Lo dice fin dall’inizio, Borrelli: «Vivi di ricordi», «Il poeta sa solo non dimenticare» ed è «Costruttore di memoria senza boria». E subito gli fa eco Salemme, rivolgendosi a Sovente: «Caro Michele, la tua opera è stata una continua, implacabile lotta della memoria contro l’oblio, della vita vera, vivente, contro la morte dell’anima».
Ma la considerazione fondamentale Ernesto Salemme la esprime quando osserva, sempre rivolto a Sovente: «[…] i tuoi versi infuocati sembrano fatti dello stesso magma che agita e scuote la nostra terra ballerina, per ricordarci la nostra fragile provvisorietà in questa vita». Giacché – nel caso di Sovente, ma anche per quanto riguarda Borrelli (e non è un caso, allora, che i due abitassero a pochi passi l’uno dall’altro) – entra in gioco la teoria sartriana del linguaggio come «corpo verbale».

Ernesto Salemme in un altro momento dello spettacolo

Ernesto Salemme in un altro momento dello spettacolo

Noi siamo linguaggio, siamo il linguaggio che parliamo. E nella circostanza, poi, la teoria di Sartre s’accoppia con l’alto appello che in «Prima del silenzio» lanciò Patroni Griffi: «La morte della parola / ci costringe al silenzio / subendo / il rifiuto a rispondere / di chi dice che le parole / si sono distaccate dalle cose / come se le cose fossero esistenza / e non piuttosto dalle parole / prendessero consistenza, / vaghe presenze prive di significato / in un limbo di attese / prima di mutarsi in cose degne / di potersi fondere / col passo incerto del piede dell’uomo. / Ogni uomo che muore / risorge in un altro che nasce. / La parola che non trova asilo / nella bocca dell’uomo / è già la morte – senza resurrezione».
Infatti, Michele Sovente, come sappiamo, scriveva le poesie prima in latino, poi in italiano e infine in cappellese. E le sue non erano semplici traduzioni, ma riscritture autentiche che, per l’appunto, nascevano dallo strenuo identificarsi con la quotidianità e la fisicità delle cose. Ciò che viene dimostrato oltre ogni dubbio, e con assoluta e persino commovente icasticità, da quanto lo stesso Sovente era solito dire di sé: lui parlava, nella propria casa, al primo piano in cappellese con la madre, al secondo in italiano con il nipote e al terzo in latino, sicuramente con se stesso e forse con gli altri poeti.
Giusto alla fisicità s’aggancia del resto Borrelli nel descrivere Sovente: «Ogni sguardo era uno scatto verso la curiosità del prossimo, con la diffidenza trasversale delle ciglia, ma l’accoglienza vermiglia e innocente delle gote». E al riguardo non posso non rilevare che, a un certo punto, l’antologia dei brani di Mimmo qui riproposti (sono tratti da «’A sciaveca», «Napucalisse» e «Opera pezzentella») cita la «tramuntanella sereticcia» che tormentava il Sapunariello di Viviani. Siamo a un altro grandissimo poeta che affidava alle cose il compito di certificare la verità e la dignità delle parole.
Non sorprende, dunque, che Michele Sovente, quando Ernesto Salemme glielo presentò, abbia chiesto immediatamente a Borrelli di leggergli qualcosa e, al termine della lettura da parte di Mimmo de «La cabaletta» dello stesso Michele, abbia esclamato: «Che voce… tu sei la voce e tutte le voci del nostro popolo». Ed ecco, d’altronde, perché «Il sommo poeta del Petraro», questo spettacolo bellissimo e importante, insiste tanto, come dicevo all’inizio, sul primato della memoria. La parola e la poesia hanno il compito di preservare la polvere dei sentimenti e delle fedi che il trascorrere della vita lascia, proprio, sulle cose e sui luoghi.
Infine, non spreco parole circa la sulfurea e travolgente bravura che come al solito dispiega Mimmo Borrelli e il contraltare sapiente e pacato che mette in campo Ernesto Salemme. Il tutto si condensa ed esalta in un finale nello stesso tempo smarrito e impavido. Borrelli legge il «Diario dell’abbandono», l’ultima poesia scritta – in ospedale – da Sovente. E in quei versi scanditi dai miserabili insulti che la malattia infligge alla carne («Mi cago addosso, piscio / sul pavimento, / sono ridotto a un colabrodo.») penetra improvviso uno scarto: «[…] si aggrovigliano i ricordi, / in uno squarcio d’azzurro / rivedo una spiaggetta greca / al tramonto. Allora, sì, / che ero vivo». A me è tornato in mente il «Congedo» di Carducci: «[…] vola serena imagine la morte, / come a te sotto i platani d’Ilisso, / divo Platone».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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2 risposte a Quel poeta che abitava in tre lingue come sui tre piani di casa

  1. Raffaele Di Florio scrive:

    Gentile Fiore,
    meritevole il suo “scritto” su questo lavoro/omaggio a Sovente; meritevole “l’attore” Domenico Borrelli per aver dato carne e corpo a parole sulfuree del poeta scomparso; meritevole Ernesto Salemme per aver fatto “conoscere” un contemporaneo (solo i veri maestri indicano strade inesplorate o poco battute); meritevole il teatro che resiste.
    Grazie!
    Raffaele Di Florio
    P.S. Mi onoro di aver avuto come docente di letteratura il professor Michele Sovente quando frequentavo l’Accademia di Belle Arti e di aver ricevuto in regalo, nel dicembre 1990, il libro di poesie “Per specula aenigmatis” con dedica, per aver superato l’esame a pieni voti.

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Di Florio,
    davvero bisogna essere grati al “teatro che resiste”, perché l'”altro teatro” fa di tutto per affossarlo, il Teatro.
    Cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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