Tre conferenzieri sperduti nel bosco delle fiabe

Un momento di «Tout semblait immobile», il terzo spettacolo di Nathalie Béasse presentato alla Biennale Teatro (la foto è di Wilfried Thierry)

Un momento di «Tout semblait immobile», il terzo spettacolo di Nathalie Béasse presentato alla Biennale Teatro
(la foto è di Wilfried Thierry)

VENEZIA – Con «Tout semblait immobile (Tutto sembrava immobile)» – il terzo spettacolo della sua «personale», presentato alle Tese dei Soppalchi nell’ambito del quarantacinquesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale – Nathalie Béasse torna sul tema della favola. Ma stavolta assume la favola nel senso proprio di fiaba, della narrazione tipica indagata e codificata da Propp.
Infatti, i personaggi in campo sono tre illustri conferenzieri, cattedratici della Sorbona chiamati per l’appunto a dibattere sulla natura e le forme della fiaba: Janine Jacquard, docente di Mitologia Comparata, Jean-Pierre von Kleinwald, fondatore del Dipartimento di Letteratura Meravigliosa e Fantastica, e Joël Noyeux, fondatore del Dipartimento delle Fiabe presso l’Istituto della Classificazione dei Racconti Orali.
Ma basta la puntigliosità con cui la Béasse descrive tali qualifiche professionali a rivelare che, qui, il vero obiettivo non è la fiaba in sé, bensì la seriosità e la retorica in cui tanti intellettuali hanno imprigionato la naturalità della fiaba in quanto proiezione del lato oscuro (e, pure, determinante) della nostra anima e della nostra vita.
Si capisce, allora, che nel testo della Béasse dilagano, impagabili, non solo l’ironia dissacrante ma, di più, una comicità franca e ribalda. Vedi, tanto per fare un esempio, la sequenza relativa alla traduzione in varie lingue del fatidico attacco «C’era una volta». Si comincia con il tedesco («Es war einmal») e si prosegue con il danese («Der war engang»), lo spagnolo («Eras una vez»), il russo («Kogdato kog»), l’arabo («Kan yamakan fi kadim zaman»)… per arrivare al libanese «Ki boud ki na boud» che significa «C’era o non c’era».
A insaporire ulteriormente questo già godibile piatto, vengono poi tirati in ballo tutta una serie di elementi più o meno noti sia della sfera culturale specifica che dell’immaginario collettivo indifferenziato: giacché, sempre per fare degli esempi, uno dei conferenzieri in questione è autore di un’opera intitolata «Folle ramo e fuoco fatuo» (evidentissima l’allusione a «Il ramo d’oro», il fondamentale saggio di Frazer sulla magia e la religione), mentre von Kleinwald viene definito «il Corto Maltese del racconto orale».

I tre conferenzieri di «Tout semblait immobile» (foto di Marine Oger)

I tre conferenzieri di «Tout semblait immobile» (foto di Marine Oger)

Ma ecco la svolta: dopo che i tre illustri studiosi hanno cominciato a beccarsi fra loro, finiscono, a poco a poco, per identificarsi con i personaggi delle fiabe che dovevano analizzare. E dunque, mettiamo, prendono a sciamare nei loro discorsi (e di conseguenza sul palcoscenico) bambini che si perdono nel bosco inseguiti dal vento e dai lupi, vengono accolti davanti al fuoco da una signora bionda che gli porta una zuppa perché si riscaldino e però, finito quell’attimo di serenità, tornano a smarrirsi nel bosco, senza poterne più uscire perché non ritrovano i sassolini e le briciole che avevano disseminato per segnare il cammino.
È un finale ambivalente, questo: poiché vi si mescolano la metafora del nostro invalicabile mistero esistenziale e i vani tentativi che perennemente facciamo per esorcizzarlo. Ma il punto decisivo è che si tratta di un finale che adotta, giusto, i toni lievi propri della fiaba. Di modo che, s’intende, il pregio non comune del testo di Nathalie Béasse sta per l’appunto nella tautologia in cui consiste: il suo oggetto è anche la sua forma.
Certo, occorre aggiungere che lo spettacolo si rivela piuttosto inferiore al testo: perché s’affida troppo spesso a semplici gag (vedi la scena in cui von Kleinwald, preso da un accesso di risa, dà alla Jacquard una pacca sulla spalla che la manda lunga distesa sul pavimento), a facili happening col pubblico (come quello della bacinella calata dall’alto che rovescia sugli spettatori delle prime file la pioggia dei pezzettini di carta a cui si son ridotte le pagine strappate di libri) e ai travestimenti non più che buffi adottati dagl’interpreti. I quali ultimi (Camille Trophème/Janine Jacquard, Étienne Fague/Joël Noyeux ed Érik Gerken/Jean-Pierre von Kleinwald) sono comunque bravi, sicché, nel complesso, «Tout semblait immobile» lascia dimenticare, e con soddisfazione, il passo falso compiuto dalla Béasse con «Roses».
Al termine della settimana trascorsa alla Biennale Teatro, posso, dunque, permettermi di suggerire a Latella qualche accorgimento. La sua idea di riservare alle registe invitate una piccola «personale» è, ripeto, eccellente, giacché io stesso sostengo da sempre che, per comprendere appieno un artista, occorre prestare attenzione al suo percorso. Ma sarebbe opportuno evitare che, all’interno di quelle «personali», siano presenti taluni spettacoli troppo inferiori agli altri. E inoltre, quattro spettacoli di fila della stessa autrice e regista, come per l’appunto nel caso della Béasse, sono un po’ troppi. Io ne ho visti tre su quattro e confesso che, pur essendo abbastanza allenato (sono uno spettatore di professione da più di cinquant’anni), al terzo ho avvertito, in tutti i sensi, una certa stanchezza.
Ciò detto, avendo in un’altra vita percorso come commissario di bordo le rotte transoceaniche, saluto Latella – in vista del rimanente del programma di quest’anno e degli altri tre anni che spenderà nel ruolo di direttore della Biennale Teatro – con l’antico augurio dei marinai napoletani: «Viento ‘mpoppa!».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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