Contro i Sette una Tebe che si toglie la maschera

Anna Della Rosa e Marco Foschi in un momento di «Sette contro Tebe», presentato alle Terme di Baia (tutte le foto che illustrano l'articolo sono di Salvatore Pastore)

Anna Della Rosa e Marco Foschi in un momento di «Sette contro Tebe», presentato alle Terme di Baia
(tutte le foto che illustrano l’articolo sono di Salvatore Pastore)

BAIA – Non è un caso che Marco Baliani – adesso regista dell’allestimento di «Sette contro Tebe» che, prodotto dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico, è stato presentato nell’ambito della rassegna «Dramma Antico alle Terme di Baia» dopo il debutto nel Teatro Greco di Siracusa – abbia preso parte come attore, nel 1996, all’allestimento di quella tragedia di Eschilo firmato da Mario Martone e Andrea Renzi. Non è un caso per i due motivi che qui di seguito illustro.
Il primo consiste nel fatto che Baliani, nelle sue note di regia, accosta la tragica vicenda di Tebe a quella di Sarajevo. E l’allestimento di Martone e Renzi stabiliva un’equazione diretta e inequivocabile tra la contesa, letteralmente fratricida, di Eteocle e Polinice e, giusto, la guerra tra «consanguinei» sorta nell’ex Jugoslavia. Tanto che i personaggi di Eschilo si muovevano fra i molti, anonimi feriti sdraiati sui lettini di un disastrato ospedale da campo che la sigla a lettere cubitali attaccata su una parete, UNHCR, qualificava come impiantato – per l’appunto a Sarajevo – dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite.
Ma questo, s’intende, è solo un dato di superficie. Molto più sostanziale risulta il secondo dei due motivi di cui dico: il fatto che Baliani riprende quello che era l’assunto concettuale determinante dello spettacolo di Martone e Renzi, una constatazione dell’odierna impossibilità della Tragedia che implicava la riduzione della Tragedia medesima alle forme e ai ritmi di una quotidianità nello stesso tempo banale e dolorosa.

Marco Baliani

Marco Baliani

Era un assunto perfettamente fondato. Poiché non v’è dubbio che oggi non si riuscirebbe neppure a immaginare le due dimensioni, opposte ma inscindibili, che costituiscono Eteocle e causano le sue decisioni e le sue azioni: l’èthos, il carattere (fatto di moderazione, riflessione, autocontrollo), e il daímon, l’immodificabile volontà divina (che «gestisce» la mitica maledizione scagliata da Edipo sui suoi figli).
Aggiungo subito che, però, Baliani non si limita – per quanto riguarda questo punto – a un semplice ricalco, ma sviluppa e potenzia la chiave di lettura adottata a suo tempo da Martone e Renzi nel solco di un’intelligenza e di una sensibilità non comuni, che si traducono, soprattutto sul piano visivo, in una serie d’invenzioni fra le più convincenti e coinvolgenti del teatro degli ultimi tempi.
Tanto per cominciare, al posto degli altari e delle statue degli dei previsti da Eschilo qui compare un gigantesco albero, dunque un elemento assolutamente naturale. E già questo rappresenta un notevole abbassamento di tono. Ma poi, per di più, prendono a susseguirsi tutta una serie di mascheramenti e smascheramenti. Per esempio, Tiresia, l’indovino cieco che il testo originale definisce «pastore di uccelli» e che, appunto, da quelli ricava i suoi vaticini, viene mascherato da avvoltoio, con tanto di mantello di piume nere e becco adunco, e subito dopo, un attimo prima che inizi a parlare, gli si strappa quella testa finta e lo si mostra con una benda di garza sugli occhi, apparentandolo esattamente a uno dei feriti che comparivano nello spettacolo di Martone e Renzi.
Si poteva rendere meglio, anche sul filo dell’ironia demitizzante e demistificante, la predetta riduzione della Tragedia alle forme e ai ritmi di una quotidianità in pari tempo banale e dolorosa? E accade lo stesso durante il colloquio fra Eteocle e il messaggero che gli comunica i nomi dei sette guerrieri scelti fra gli argivi per assaltare le altrettante porte di Tebe: ai guerrieri che Eteocle contrappone a quelli annunciati dal messaggero (Melanippo, Polifonte, Megareo e così via) viene immediatamente tolta la maschera che gli copriva il volto nel momento in cui erano apparsi, fissati a una sorta di panoplia lignea. E ogni maschera va ad adornare una delle pietre-cippo che delimitano la ribalta a suggerire l’idea della cinta muraria di Tebe.

Un'altra scena di «Sette contro Tebe» diretto da Marco Baliani

Un’altra scena di «Sette contro Tebe» diretto da Marco Baliani

Ecco, qui la regia di Marco Baliani si esalta addirittura. Perché l’invenzione che ho appena descritto traduce pari pari un’acutissima osservazione di Jean-Pierre Vernant: «Il vero personaggio dei Sette è la città, cioè i valori, i modi di pensare, gli atteggiamenti che essa impone». Ma non basta. Baliani effettua lo smascheramento, su cui non a caso ho insistito, non dichiarandolo, ma attraverso un’autentica dissolvenza incrociata: ciò che si manifesta in maniera eclatante nella sequenza conclusiva, quando i cittadini della Tebe di Eschilo si spogliano dei costumi «classici» e scoprono le vesti ordinarie, povere e lacere degli abitanti di un’Aleppo qualsiasi. Mentre il lamento funebre rituale va somigliando sempre di più al suono lacerante delle sirene d’allarme.
Molto bello, davvero. E molto significante e commovente. Ma proprio per questo, poi, mi sembrano decisamente fuori luogo, perché del tutto contraddittori rispetto a quanto detto sinora, quei due altoparlanti montati su una torre metallica a trasmettere l’editto del nuovo re, Creonte, che vieta la sepoltura di Polinice. Come ha fatto, Baliani, a non accorgersi di tanta contraddittorietà? E perché, ancora, non s’è accorto di come faccia a pugni con il resto della sua regia l’invenzione di quell’aedo/custode che apre e chiude lo spettacolo nella chiave di una mistica del teatro oggi assai improbabile, invitando gli spettatori a far tesoro del messaggio diffuso dalle antiche pietre circostanti?
Comunque, salvo queste due sbandate, parliamo di uno spettacolo di rispetto, garantito, fra l’altro, da un cast di notevole livello medio, in cui spiccano la sempre bravissima Anna Della Rosa (Antigone) e il non meno apprezzabile Marco Foschi (Eteocle). Negli altri ruoli principali i corretti Aldo Ottobrino (il messaggero e l’araldo) e Gianni Salvo (l’aedo/custode). Mette conto, dunque, di chiudere con un elogio alla Fondazione Campania dei Festival, che, con questa rassegna, consente oltretutto di far scoprire a quanti non lo conoscevano (preziosa, al riguardo, anche la visita guidata che introduce gli spettacoli) un luogo incomparabilmente carico di memorie come, appunto, le Terme di Baia.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *