Dioniso dietro un microfono, nel ricordo dei Pink Floyd

Un momento delle «Baccanti» in scena ancora oggi al Teatro Grande di Pompei (le foto dello spettacolo sono di Marco Ghidelli)

Un momento delle «Baccanti» in scena ancora oggi al Teatro Grande di Pompei
(le foto dello spettacolo sono di Marco Ghidelli)

POMPEI – Io stimo molto Andrea De Rosa, ne fanno fede le mie recensioni che lo riguardano. Ma stavolta dissento da lui, e lo dico con la maggiore convinzione e la maggiore chiarezza possibili: non capisco (o lo capisco fin troppo bene) che cosa significhino e quali scopi si prefiggano il suo adattamento e la sua regia per l’allestimento delle «Baccanti» di Euripide che lo Stabile di Napoli presenta ancora oggi nel Teatro Grande di Pompei come quarto evento della prima rassegna di drammaturgia antica «Pompeii Theatrum Mundi».
De Rosa, via e-mail, mi ha invitato personalmente a vedere questo spettacolo, e poi mi ha mandato a casa il testo del suo adattamento. E io, dopo averlo attentamente letto e studiato, non meno attentamente l’ho confrontato con il testo originale di Euripide sulla base di due fra le migliori traduzioni che ne siano state fatte: quella storica di Raffaele Cantarella pubblicata nel Meridiano Mondadori «Tragici greci» e quella più recente di Vincenzo Di Benedetto pubblicata nell’edizione Rizzoli delle tragedie greche a cura di un esperto della statura di Guido Paduano.
L’adattamento di Andrea De Rosa si apre con un lungo elenco – detto da Dioniso in greco e del tutto inventato rispetto al testo euripideo – di alcuni dei moltissimi nomi ed epiteti dello stesso Dioniso: da Bàkchos a Iakkhos, da Bromios a Liknìtes, da Pyrìgenés a Nysèus, da Lenèus a Thrìambos e Protògonos. Già che c’era, De Rosa ne avrebbe potuto trovare altri nel primo («Gli dei») dei due Meridiani che Mondadori ha dedicato al mito greco per la cura di Giulio Guidorizzi. Ma mi chiedo, che cosa dovrebbe capire uno spettatore comune da quell’elenco di nomi ed epiteti in greco e, per giunta, spesso indistinguibili per gli effetti combinati dell’alto volume della colonna sonora e della voce non sufficientemente impostata dell’attrice che interpreta Dioniso? Dovrebbe capire, poniamo, che l’epiteto Bromio si riferisce alla frenesia rumorosa propria, per l’appunto, dei riti dionisiaci?

Andrea De Rosa

Andrea De Rosa

Ma, come al solito, propongo – prima di continuare con l’analisi dello spettacolo – qualche cenno introduttivo circa il testo di Euripide. Il suo tema fondamentale è quello dell’ambiguità in cui via via precipita la scelta razionale. E proprio in questo tema – trattandosi di una degradazione che oggi ci riguarda molto da vicino – consiste poi l’elemento più interessante, se non l’unico, di «Baccanti».
Il nucleo concettuale e drammaturgico del testo è costituito per l’appunto dallo scontro fra il razionale (rappresentato da Penteo, re di Tebe) e l’irrazionale (rappresentato da Dioniso). E se in un primo momento assistiamo ai reiterati e fieri proclami di un Penteo che si rifiuta, giusto in nome della razionalità, di riconoscere la natura divina di Dioniso, successivamente lo stesso re di Tebe si lascia prendere da uno stimolo che razionale è assai poco: la curiosità di assistere alle follie delle Baccanti, che, come sappiamo, finiranno – quando lo scoprono – per sbranarlo, in testa, resa cieca dalla vendetta del dio, addirittura Agave, la madre di Penteo.
A rendere chiarissima tale alternanza contraddittoria tra razionale e irrazionale basterebbero, del resto, due battute di Penteo (le cito qui nella traduzione di Cantarella) assolutamente inequivocabili. A proposito dei riti bacchici notturni descritti da Dioniso, Penteo dichiara: «Questa è una trappola per le donne: e perfida, per giunta»; e in seguito non esita a confessare di voler vederle, quelle donne, pur se «avvinazzate» e «anche se dovessi pagarlo (il soddisfacimento di un capriccio del genere, n.d.r.) a peso d’oro». E d’altronde, è appena il caso di aggiungere, fra parentesi, che proprio una simile commistione fra razionale e irrazionale, e più in generale fra umano e superumano, ha poi consentito che il mito di Penteo fosse interpretato in chiave cristiana: tanto che negli «Atti degli Apostoli» la liberazione di Pietro è assimilata a quella di Dioniso, e Celso, nientemeno, gli paragona Cristo. Senza contare che il noto centone «Christus patiens» risulta in gran parte composto, per l’appunto, con versi delle «Baccanti».
Per di più, in questa tragedia l’ambiguità si estende anche al problema costituito dalla religione: perché vi constatiamo una continua oscillazione di Euripide fra l’ortodossia e il libero pensiero. Vedi, in proposito, le battute (cito stavolta la traduzione di Di Benedetto) che pronunciano rispettivamente Tiresia («Le tradizioni avite, quelle che in quanto antiche come il tempo noi abbiamo acquisito, queste cose nessun ragionamento le atterrerà, nemmeno se la nostra scienza sia il risultato di un sofisticato indagare») e Cadmo («Atto giusto, ma eccessivo, è quello del dio, Bromio signore, che ci ha distrutti: lui, che è nostro consanguineo»).

Un altro momento delle «Baccanti»

Un altro momento delle «Baccanti»

Infine, per chiudere con i cenni introduttivi, ricordo che proprio sull’ambiguità in cui via via precipita la scelta razionale si fondava l’allestimento di «Baccanti» che nel 2002 l’Istituto Nazionale del Dramma Antico e il Piccolo di Milano presentarono nel Teatro Greco di Siracusa per la regia di Luca Ronconi. E se insisto con Ronconi, dopo aver ricordato il suo allestimento del «Prometeo incatenato» in sede di recensione del «Prometeo» diretto da Massimo Luconi, è perché «Pompeii Theatrum Mundi» ha ricalcato pari pari, per l’appunto, il dittico ronconiano di allora, addirittura nell’ordine di presentazione degli spettacoli: prima la tragedia di Eschilo e poi quella di Euripide.
Ma, rispetto a quanto detto sinora, Andrea De Rosa va in tutt’altra direzione. E due (a parte i tagli drastici apportati al testo euripideo, sino a ridurlo ad appena un’ora e un quarto di rappresentazione) sono i segni forti impressi dalla sua regia: il fatto che Dioniso sia interpretato da una donna e il fatto che costei, in jeans e con i capelli lunghi fino alla cintola, così da richiamare un vero e proprio rocker, stia quasi sempre in piedi dietro un microfono.
De Rosa ha spiegato questi due segni nel modo seguente: il primo con la constatazione che, secondo lui, Dioniso è «insieme uomo e donna, debole e potente» e il secondo col proprio desiderio di rievocare il concerto che i Pink Floyd diedero giusto a Pompei nel 1971. E lasciando stare la faccenda, assai peregrina, di un tale aggancio a Gilmour e soci, c’è da osservare che (complice la traduzione di Davide Susanetti qui adottata, in cui, per esempio, si parla di «scopare» e di «chiavare») il Dioniso interpretato da una donna trasferisce il simbolismo e l’allusività di Euripide sul piano di un realismo andante, quello di un rapporto di tipo sessuale fra il dio e Penteo. Vedi, in proposito, la vera e propria manovra di seduzione con cui Dioniso aggredisce il re di Tebe mentre sta spiegandogli come lo guiderà a spiare le baccanti. Nel testo di Euripide non c’è assolutamente nulla che autorizzi una lettura del genere.
In breve, lo spettacolo di De Rosa s’impantana nella terra di nessuno fra l’intenzione di arrivare a una dimensione «filosofica» e il rimanere, di fatto, prigioniero di un’innocua e ammiccante narratività. L’emblema di un tale scarto mi sembra il fatto che le baccanti che entrano ed escono dalla «scatola» che sul fondo dello spazio scenico rappresenta le valli del Citerone sembrano nude, ma in effetti indossano delle calzamaglie color carne che recano sul davanti una macchia scura che s’intende far passare per il vello pubico. Insomma, si regala allo spettatore il dilemma: ho visto bene? è o non è?… E questo con tutta la caterva di nudi effettivi e totali che da anni e anni invade i palcoscenici. L’ha visto, De Rosa, lo spettacolo di Emma Dante «Bestie di scena»?
Per il resto, il solito fumo, le solite frustate di luce da discoteca, la solita lampada stroboscopica e i soliti fari negli occhi del pubblico. E poi, quel ballonzolare francamente un po’ ridicolo che dovrebbe suggerire la danza rituale indotta da Dioniso… C’era di meglio, di molto meglio a cui appigliarsi. La danza in cui davvero si manifesta l’anima dei greci non è quella corale del sirtaki ammannito ai turisti. È quella che si può rintracciare, ma non sempre, in certi locali sperduti del bouzouki: viene ballata da un uomo solo, quando il vino bevuto gli fa l’anima leggera, e si chiama – guarda un po’ – «zeibeikiko», una parola nata dalla fusione di Zeus e Bacco.
La recitazione, infine, è di volta in volta cadenzata, urlata o sussurrata, ma, sistematicamente, in maniera piuttosto scolastica. Nei ruoli principali Federica Rosellini (Dioniso), Lino Musella (Penteo), Marco Cavicchioli (Tiresia) e Ruggero Dondi (Cadmo). L’unico momento che prende, quello in cui Andrea De Rosa ritrova l’inventività eclatante e significante che gli conosciamo, consiste nella sequenza di Agave che con gesto ossessivo si sbatte contro il ventre la testa del figlio, come a voler ritrovare per sé e per lui l’innocenza del limbo prenatale. Però, occorre aggiungere subito che questa sequenza si giova dell’interpretazione di una Cristina Donadio semplicemente superba.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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